“Quis custodiet ipsos custodes?”
-A. Moore [più o meno]
“Generalizzare vuol dire essere idioti.”
-W. Blake [questa è vera]
Diciamocelo, cari amici lettori, iniziare un articolo preceduti da una citazione (soprattutto in latino) è un cliché, un topos per ogni scritto che si rispetti; c’è però chi sostiene che iniziare con due sia invece da screanzati. Pensateci, questa potreste rivendervela come terza citazione! Tutto questo inutile preambolo per dirvi cosa? Essenzialmente nulla, d’altronde la prima citazione non fa che ribadire il tema esposto già nel titolo, mentre la seconda… mmh ecco, in effetti cosa rappresenta? Un’offesa a Moore (e Giovenale) ? Nient’affatto: né più né meno è un mettere le mani avanti. Perché ciò che vi dipingerò – con poca sapienza – sarà una schematizzazione che, in quanto tale, è incapace fino in fondo di atrofizzare l’onta di arbitrarietà, soggettività, contingenza e tendenziosità che le è strutturalmente propria. Se fra di voi vi è un buon critico – magari alla fine dell’articolo – potrà anche accusarmi di fare della teleologia indebita, del revisionismo storico e, dulcius in fundo, dell’ideologismo cataclismatico senza che il sottoscritto, in tutta risposta, imbracci la sua amata Gungnir . Ora, dopo che lo scrivente ha giustamente provveduto a farsi a pezzi, vi dirò cosa succederà… anzi no, parliamo di The Boys.
Quei bravi ragazzi
The Boys di Garth Ennis è una di quelle opere che è facile definire “appagante”. Se come me siete perennemente alla ricerca di una storia davvero politicamente scorretta, e che osi fino in fondo, la amerete. Fine. Potrei stare qui ad elencarvi i motivi per i quali leggere questo fumetto edito dalla Dynamite, ma questo articolo non vuole essere una recensione, o quantomeno, non solo questo – e anche ammettendo che lo sia – è decisamente sui generis. Sui generis come è The Boys d’altronde: dalle premesse invertite, dai cupi colori. Tripudio di violenza, sconsideratezza e scorrettezza. Fra le opere più odiate dalle madri, è un continuo ritorno di cinismo – di quello vero – di brutali perversioni e sporca irriverenza.
Tutto ciò che c’è di sbagliato al mondo, esaltato al massimo grado, è presente in The Boys; ma se fosse solo questo non meriterebbe di rispondere all’eterna domanda: “chi controlla i controllori?”
Perché questa domanda non si esaurisce in una risposta narrativa, ma va ben oltre (meta-narrazione): apre le porte alla concretizzazione, e alla manifestazione, del genere super eroistico; che si pone dunque come entità a sé.
Mi spiego meglio: Watchmen a suo tempo ha lacerato il genere super eroistico, portandolo ad un momento di rottura.
La domanda posta da Alan Moore ( che ha una storia alle spalle ben più lunga) era tanto narrativa quanto metanarrativa, e in quanto tale, la sua risposta non potrà che essere entrambe le cose.
Watchmen e The dark knight returns di Frank Miller, infatti, sono i pilastri su cui è sorta la cosiddetta Dark age of comics. Un momento storico ben preciso in cui nuovi temi hanno pervaso il fumetto main stream. Se torniamo alla nostra immagine del genere super eroistico posto come entità, è come se questa fosse giunta ad un primo momento di maturità negli anni 80. L’arte, in tutte le sue forme, conosce infatti un’evoluzione quasi in termini biologici. Pensate all’arte rupestre come l’infanzia, al virtuosismo rinascimentale come la fase adulta e la decostruzione moderna e contemporanea come alla crisi di mezza età.
Battute a parte, applichiamo lo stesso schema ai fumetti degli anni 30:
Disegni semplici, ingessati. Ovvie limitatezze di inchiostrazione accompagnavano didascalie – è il caso di dire – didascaliche. Ogni cosa era manifesta, non vi era spazio all’allusione. Tutto ci veniva spiegato, non solo nelle didascalie ma anche negli innaturali dialoghi. Insomma, non vi era spazio per certe giocate di stile a cui ormai ci siamo abituati: storytelling ricercata, allusività, silenzi pregni di sofisticato significato, tavole magistralmente gestite, resa cinematica, narrazione da Blockbuster ecc. Tutto questo mancava nell’infanzia dei comics, insieme ai contenuti e alla complessità psicologica introdotta nella ” prima fase” di maturità.
Moore e Miller, due nomi dunque da ricordare.
Con loro abbiamo conosciuto il lato umano dei super eroi. Il lato anche perverso, oscuro e problematico (appunto umano).
L’ossessione di Batman come malsana gestione di un lutto mai metabolizzato stringeva la mano a Rorschach; una delle tante macchie in quel torbido (e realistico) mondo di Watchmen.
Con questi due autori scopriamo l’ovvio: i super eroi hanno una dimensione privata e umana, e pertanto, una dimensione oscura.
Batman prima di Miller [ con alcune eccezioni, sia chiaro. Ma come si è detto, si vuol mantenete una linea ben precisa, che per forza di cose, deve tener fuori elementi dall’analisi, NdR] era l’estremo tendere dell’uomo virtuoso, e in ultima istanza, dell’individuo idealizzato e inarrivabile. Massimo rigore fisico, lucidità mentale e chiarezza degli scopi.
Mentre il Batman di Miller, a ragion veduta, ben si riassume nel suo opposto: stanchezza fisica, ossessione martellante e incertezza del tutto.
Rovescio del paradigma come pochi, e fatemi aggiungere, come pochi così ben riuscito e reiterato.
E la seconda fase?
Alcuni di voi forse a questo punto vorranno sapere come si sono evolute le cose dopo gli anni 80, ed è presto detto: è opinione comune che se Miller e Moore abbiano rappresentato i primi pilastri della maturità, i secondi siano stati Mark Millar e Warren Ellis.
Authority, Ultimates, Civil war, la Wildostrom tout court.
Un noto filosofo era solito dire che se vuoi fare qualcosa di analogo a quanto già fatto, non puoi che fare qualcosa di radicalmente diverso [era Heidegger, NdR]. In che senso? Immaginate di voler ripetere 20 anni dopo quanto fatto con Watchmen.
Ingenuamente vi verrebbe da dire:
” ricreiamo l’opera di Moore tal quale!”
Ma nel fare così non fareste che neutralizzare il senso di un’opera la cui essenza dimora nel suo contesto.
In pratica volete portare una mentalità anni 80, con tutta la vivida tensione della guerra fredda, in un periodo senza Unione sovietica. Siete degli idioti.
Ma sicuramente non lo sono Millar ed Ellis, che appunto fondano una seconda fase dei comics ponendosi da un prospettiva opposta ( ma in continuità con lo scopo: rappresentare le psicosi del proprio tempo) a Miller e Moore: se quest’ultimi si sono concentrati sull’interiorità, i primi hanno portato tutto all’esterno.
In un mondo pervaso dalla tecnica (e gli amici Heideggeriani saranno ancor più contenti ora) fanno capolino problemi vecchi e nuovi, ma parimenti legati ad una questione etica e sociale non di poco conto: la privacy.
Un serpeggiare di un dubbio hobbesiano lascia il posto ai freudiani protagonisti di un’era andata: sicurezza o libertà?
Super eroi come proprietà governative, valori fortemente destrorsi, dura violenza. WELCOME 2000!
L’elemento politico carburava come non mai.
Ma il cubismo? Il jazz? Il cinema bulgaro?
Sì dai avete capito, quelle inevitabili fasi, che fra decostruzione e complessità, l’arte vive nel suo evolvere.
Non hai ancora visto la mia forma finale…ecco la TERZA FASE!
Prima di cominciare facciamo un’ulteriore precisazione redazionale e semi riassunto delle puntate precedenti : non parliamo, in questa sede, del fumetto in generale; laddove questi processi già si sono visti. Parliamo del genere super eroistico – che per svariate ragioni – vuole permanere in uno stato di semi immobilità.
Pur lentamente, però, si è detto come con certi autori siano stati capaci di smuovere questo granitico genere disvelando le tempeste psichiche del tempo in cui sono state prodotte determinate opere. Questa volta, per darci manforte, scomodiamo Hegel per quanto riguarda il ruolo e la natura dell’Arte: essa è una forma di autocoscienza di un popolo; e come tale, rispecchia e fa risuonare le psicosi del proprio tempo. E dunque, ancora una volta, l’impossibilità di strappare Watchmen dal proprio tempo al fine di rivificarlo; al contrario, è possibile ripetere quanto fatto da Moore e Miller con un qualcosa di molto diverso; ma una diversità non dovuta ad una overdose di indie, bensì dovuta all’analogo desiderio di voler rappresentare il proprio tempo che – è giocoforza – non potrà che differire sul piano sociale, economico, politico e culturale dal vissuto anni 80. Sempre con Hegel, infine, vi lascio con una suggestione a mo’ di domanda per la prossima volta (sì, sto rispondendo ad una domanda con una domanda): se vogliamo seguire il filosofo fino in fondo, tenendo conto del movimento dialettico di tutte le cose da egli proposto, se la seconda fase sembra l’esatto opposto della prima (dunque la negazione, quindi proprio come nel movimento dialettico) la terza fase del genere super eroistico sarà unità di entrambi i primi momenti come suggerito dal filosofo tedesco? Negazione di negazione? (quindi per noi) tanto psicologico quanto politico?
The Boys parte nel 2006, quindi non siamo lontani dal duo Millar-Ellis [Ultimates inizia nel 2002 mentre Authority nel 1999, NdR].
Inoltre – per come si mostrerà – forse più che una terza fase è fatalmente ( e direttamente) la morte del genere, e nel suo macchiarsi di sangue, pone qualcosa di nuovo. Pertanto, la vicinanza cronologica alla seconda fase e la distanza ideologica, potrebbe portarci a definire l’opera di Ennis una fase parallela piuttosto che una diretta prosecuzione.
Però, se fosse solamente così, ancora una volta, The Boys non avrebbe fatto parte di questo articolo: insomma, sarà anche un qualcosa di parallelo ma non di assolutamente altro. Vien da sé che, se così fosse, non potrebbe certo rispondere alla domanda aperta. E dunque?
Come si è detto Moore ha posto una domanda (anche) meta narrativa. Narrativamente, è banale dirlo, The Boys vuole dare una risposta o almeno ci prova. Stiamo davvero parlando di tizi al soldo della CIA che devono tenere sotto controllo i super eroi ( sì ok, e chi controlla loro? Boh? Kermit?)
E quindi tutto ok, ma è metanarrativamente che avviene la magia.
The Boys non è solo il tripudio di perversioni e crudeltà di cui si parlava, è anche una squisita satira.
Ennis è geniale nel suo prendersi gioco degli archetipi più classici. Dal Superman stupratore al Batman pansessuale passando per Nightwing omofobo (sì, molta sessualità).
Un’irriverenza, molto poco fine a se stessa, è invece sintomo di una più articolata decostruzione dell’archetipo. Nello stesso modo, ma su altre strade, di Miller e Moore (ed ecco la continuità con loro). Pagina dopo pagina, pezzo dopo pezzo, Ennis uccide i super eroi. Non è uno spoiler, sto parlando di icone.
Tutti il senso dell’opera è far cadere le stelle, i modelli, gli idoli. Mortificarli nella loro umanità empia.
Avete presente quando tutti sorridono e festeggiano dopo aver picchiato, che ne so, Loki? Titoli di coda (scena post credit) e tutto si spegne nel buonismo. Mai nulla di più falso; è dopo, è nella notte oscura (e oscurata) dello schermo spento che l’essere umano esce dall’icona. Ennis dunque riflette – come pochi con tal lucidità – sulle implicazioni concrete dell’aver a che fare con super umani. Dove super sono i poteri e non la moralità.
Una donna può morire nei peggiori dei modi se ha l’infausto compito di dar alla luce un super umano (per non parlare del concepimento…no davvero non ne parliamo).
Ennis vi parlerà di questo, e nel farlo, saprà restituire uno scenario globale che ha accolto, e socialmente metabolizzato, la presenza di super umani in un modo molto credibile.
Vi parlerà delle morti collaterali ( Sokovia?), del relativo menefreghismo dei colpevoli, della mercificazione delle immagini, della finzione dei fumetti.
In sintesi: Ennis pensa così in fondo il super eroe da ucciderlo. Materialmente e non.
Porta a galla una conclusione tanto disarmante quanto tautologica: i super eroi non esistono, perché se esistessero non esisterebbero. Non possono strutturalmente esistere, non sono mai davvero eroi. Non meritano questo appellativo.
Sono solo colorate bugie, come si diceva in un altro articolo.
Sì, forse Ennis uccide il super eroe, ma lo fa partendo da un profondo accoglimento dello stesso.
Una visione forse distorta, esacerbata, tendenziosa, estremizzata.
Insomma, Superman può davvero essere così buono?
Batman è davvero un super eroe? (penso che questa domanda la abbia aperta Miller senza che nessuno la abbia mai davvero chiusa).
Potremmo in conclusione dire che Ennis uccida il super eroe ponendo forse così la terza tappa, quella definitivamente decostruzionista ( se vogliamo, il secondo momento decostruttivo. La seconda negazione. Un po’ di Hegel anche qui) o in alternativa potremmo dire che egli apra una strada (sterrata) parallela. Siamo o no dinnanzi al momento jazzistico e cubista del super eroe? L’abbandono delle convenzioni ( e l’accoglimento di nuove), la sperimentazione pura, l’implosione di un genere. Tutto questo vi è in The Boys senza dubbio, ma la sua giusta collocazione critica rimane incerta.
Una nuova possibilità
Vi saluto, ringraziandovi per l’enorme pazienza, con una piccolissima suggestione in merito alla terza tappa. Ne riparleremo in un altro articolo, ma intanto…
e Tom King ? Perché, anche se non è mai emerso nell’articolo, indubitabilmente rappresenta una preconfiguratore (embrionale) della terza tappa. Innanzitutto sul piano cronologico è un detentore maggiormente legittimo di quanto sia Ennis ( con Visione, di cui vi parlerò prossimamente, siamo nel 2016), inoltre si pone in maggior continuità – e con maggior identificabilità – di quanto faccia The Boys, pur non mancando però la preziosa componente decostruttiva.
Creazione e distruzione vanno a braccetto. Che tu sia manicheo o induista, saprai come uno non possa esserci senza l’altro, caro lettore.
La decostruzione non è un momento di passività e negatività: si apre – al contrario – ad un risultato positivo; nella più classica accezione metafisica del termine: quella dell’Essere.
Decostruire permette di reinventare.
Un principio che alcuni russi hanno preso eccessivamente alla lettera, ma almeno in campo artistico è un’importante verità. Ennis non si è allontanato molto da Miller, ha semplicemente messo il turbo. Se da grandi poteri derivano grandi responsabilità, da grandi decostruzioni derivano grandi cambiamenti. Superando una determinata soglia, così come il cedimento di un materiale, la continuità con le fasi precedenti di una struttura narrativa decade. Nel caso di Miller con Batman si è rischiato il cedimento di tutto, con The Boys si è visto da sé come il cedimento sia stato tale da rendere problematica una sua collocazione certa nel discorso.
Ha sfondato le pareti della decenza, ma non in senso assiologico o valutativo del termine, parlo della decenza brutta; cioè delle convezioni sociali. Ha osato, spesso più di quanto ci si aspetterebbe -grazie al cielo- da un fumetto.
I lettori di Preacher lo sapranno già, ebbene Ennis voleva fare qualcosa ancor più ricco di preacheritudine. Riuscendoci?
Ne parleremo quando parleremo di Preacher.
Il discorso è ampio ma l’articolo termina – brutalmente- qui. Torneremo a parlarne, non solo con il King-one nazionale ma provando anche a dar spazio ad altri autori e altre opere che hanno costellato la genesi del genere super eroistico. Così come King ed Ennis potrei parlarvi di Jeff Lemire e il suo Black hammer, o tornare a parlare di Moore con il suo Top 10. Il Millarworld o Invicible di Kirkman. i numerosi esempi che pongono svariati protagonisti di infiniti schemi genetici non destabilizzano quanto detto fino ad ora, ma semmai perorano la tesi: quando parliamo di fasi genetiche, in una qualunque forma d’arte, non parliamo di singoli individui ma di una Weltanschauung collettiva, che come si è già detto, è espressione di un preciso contesto storico. Qualsiasi sia il protagonista indiscusso della terza fase poco importa, è una questione per gli storici; così come lo è stabilire in via definitiva l’identità del padre dell’analisi matematica fra Newton e Leibniz. Ciò che è interessante è vedere come il tutto si stia strutturando giorno per giorno proprio nei nostri giorni, così come l’analisi nei loro. Siamo anche noi lettori a stabilire la via giusta. Watchmen e Il ritorno del cavaliere oscuro non sarebbero pilastri se non avessero fatto il boom di vendite (e non lo avrebbero fatto se non avessero rappresentato qualcosa di galvanizzante per quegli anni). King non sarebbe in lista se non avesse vinto un Eisner o se il fumetto di The Boys non fosse diventato una serie tv: è il successo a decretarne l’importanza e viceversa; solo così i contemporanei e i futuri sceneggiatori (magari attraverso opere ispirate proprio dal loro successo, forse proprio con la serie tv Amazon dedicata ai nostri ragazzoni) risuoneranno armonicamente con le opere precedenti, producendo altro, diverso ma connesso [salite nell’articolo e ditemi se quel Cap non assomiglia a qualcun altro poco più in alto, NdR]. Insomma, la solita questione dei posteri, che con il loro fare, inquadrano assiologicamente la storia. Dunque prendiamocene giustamente il merito. Grazie a tutti!
Laureato in filosofia, maestro d’ascia e immenso mentitore. Passa le sue giornate ad acquistare fumetti che forse un giorno leggerà e mai recensirà.
Fra le altre cose è degno di sollevare mjolnir, ha un anello delle lanterne verdi nel cassetto ed è il cugino di Hegel.