Oggi vi parlo di Sandman, di Neil Gaiman.
È assurdo pensare quanto sia stato difficile per me scrivere questo articolo. Ho sempre pensato che ci sia troppo da dire su questa storia perché io possa raccontarvela e perché possa farlo in una volta sola, motivo per cui, semplicemente, non lo farò. Ho già in mente un progetto in cui potrò dedicare a quest’opera lo spazio che per me si merita, non vi anticipo altro, e questa per me è in realtà in qualche modo una liberazione.
Non parlerò intenzionalmente neppure dell’adattamento Netflix (che al momento della scrittura non ho comunque ancora visto), uscito in questi giorni, né di alcun passo specifico della saga. Quest’ultima cosa non voglio farla perché sarei comunque inadeguato e per rispetto di chi Sandman non l’ha ancora letto, cui questo articolo è in fondo destinato, spero, perché è mio dovere farvi innamorare di quest’opera. Non ho e non avete alternative, va letta e poi va amata.
Spenderò quindi due parole sullo spirito dell’opera, perché è quello che mi preme.
Nel mio tempo libero non sono un assolutista del gusto o dell’estetica, anzi mi diletto nel lamentarmi di quello che mi pare, con tanto più perverso piacere quanto più l’oggetto delle mie critiche è comunemente apprezzato; ritengo però che determinati giudizi debbano essere accettati senza discutere: alcune opere, volti, sapori non sono soggetti al gusto di una società perché sono chiamati a formarlo.
Sandman è, io ne sono convinto, una di queste opere. Non lo dico perché così fan tutti o perché la critica lo adora, lo dico perché ritengo sia vero. Proverò a portarvi indietro fino al momento in cui mi sono innamorato io dell’opera, nella speranza che possa ricapitare ad altri.
Quando Neil Gaiman ha scritto Sandman ha fatto qualcosa che in pochi riescono a fare e chi ci riesce non sa spesso farlo di proposito: ha dato vita alle storie. Del resto l’epopea di Sogno parla proprio di questo, della vita delle storie ed è una storia viva. Quando penso a Sandman di Neil Gaiman mi vengono spontanei due collegamenti: le fiabe dei Grimm che mi leggevano da bambino e I tre moschettieri di Dumas. È buffo perché non hanno molto in comune, ma d’altra parte le ragioni del collegamento sono piuttosto personali.
Della sensazione che provavo quando mi sdraiavo a letto e mi leggevano le fiabe in realtà non ricordo molto. Il tempo di decadimento della mia memoria è dell’ordine di qualche anno al massimo, e facendo una stima devono essere passati quasi due decenni dall’ultima volta che mia madre mi ha letto una fiaba. Quello che ricordo è che la voce di lei mi cullava e gettava la mia piccola coscienza in un profondo baratro scuro, i protagonisti dei racconti delineati appena, ombre caotiche proiettate da qualche luce remota capace di cambiare intensità, colore e forma.
Non è un caso che io mi sia soffermato su questa bizzarra similitudine: sto cercando di evocare in voi una sensazione precisa, un ricordo che non avete vissuto, impresso nei vostri geni dai tempi in cui l’umanità si stringeva attorno al fuoco nelle caverne, evocando spiriti in danze rituali o raccontandosi le stesse storie che i millenni hanno plasmato nelle vicende del libro che mia madre mi leggeva. Il folklore ha il potere di metterci in contatto con una realtà primordiale giocando con le nostre emozioni e conoscenze più elementari, come la paura per esempio. Non lo spavento o il terrore, la paura.
Le fiabe però hanno vita facile, ce le raccontano da bambini, quando siamo più suscettibili che mai al fascino dei racconti. Sandman mi ha messo di fronte alla stessa sensazione quando avevo passato già i vent’anni.
E invece I tre moschettieri, che cosa c’entrano? Nulla, credo.
Si tratta di uno dei romanzi che più ho amato durante la mia adolescenza e da cui ho iniziato ad allontanarmi lentamente mentre il mio senso romantico della vita scemava, io assumevo la posa di un triste esteta cinico, e le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,le cortesie, l’audaci imprese lasciavano il posto alle donne (quelle in ogni caso), il gotico, la violenza, il cyberpunk e Dorian Gray.
Ma Il Ritratto di Dorian Gray è un libro che ho letto compiaciuto, seduto in un angolo con le gambe accavallate, tutto composto a gioire dell’arguzia di Lord Henry o di Wilde stesso, la vicenda di D’Artagnan aveva invece per me un altro trasporto, diverso dagli altri, io ero con lui quando si metteva sulla via di Parigi per diventare qualcuno, ero con lui quando s’innamorava di Constance, quando Milady de Winter tramava per il suo tormento. E mi sentivo come se quella storia parlasse di me, delle mie cotte non corrisposte, delle mie piccole tragedie adolescenziali, e mi struggevo di una felicità profonda e inebriante, quella che ti fa scrivere poesie, guardare un insetto come se fosse un profeta, cantare la primavera e amare la nebbia, la pioggia, i corvi gracchianti.
Ero con Athos quando, alcolizzato in una maniera elegante che è possibile solo nei romanzi (perché in realtà stareste imbrattando un muro di colori inopportuni tra le bestemmie e i vuoti di memoria) soffriva il suo passato, piangeva la sua amata e ciò che non era stata, si faceva carico dei suoi segreti a mo’ di croce come unə quattordicenne nella sua stanzetta chiusa a chiave.
Questa, però, è solo la mia esperienza di quest’opera, sicuramente condivisa, ma non credo universale.
Il ciclo di Sandman è invece io credo una sorta di psicanalisi ancestrale, una catarsi pop, da cui chiunque sia dotato di sufficiente pazienza e empatia e tolleri almeno un poco i fumetti può farsi investire.
Sogno, Delirio, Morte (io amo Morte) sono così carichi del contesto in cui il fumetto è stato scritto che sarebbe assurdo non percepirli vecchi e fuori luogo, Lucifero è fin troppo glamour, e invece non sono né vecchi né fuori luogo. Stanno tutti dove devono stare, compresi Shakespeare e Marco Polo, anche Eva e Caino. E ognuno di loro ero io in un modo in cui solo la letteratura bella sa essere me, non importa che certi luoghi, storie e personaggi fossero vecchi di secoli o millenni e non importa che l’autore stesse scrivendo tra gli anni ’80 e ’90 (e fidatevi, non potrete non accorgervene).
La struttura dell’opera è di quelle che ti permette di metterci dentro quello che vi pare. Alcuni archi narrativi più organici si alternano a storie autoconclusive ma non per questo prive di riferimenti al resto o di impatto sul seguito degli eventi.
Le storie senza seguito sono quelle che apprezzo di più in generale. Il punto però credo sia la vastità di temi e situazioni toccate.
Gaiman più della maggior parte degli autori contemporanei è a suo agio nel parlare del Cielo e dei Dannati con uguale compassione e distacco, e il suo Morfeo solca ogni regno incarnando la rabbia di un dio ferito, di un bambino stupito.
La versione della divinità e dell’inferno che Gaiman ci propone, ma così come dell’universo e dei suoi principi, non è certamente l’unica né la più esaustiva, è solo una delle tante. Una che apprezzo, certamente, ma una delle tante. E tuttavia non importa se siamo d’accordo con lui, perché non vuole spiegarci mai nessuna di queste cose, vuole mostrarcele così come sono già nella nostra testa, riflesse in maniera straordinariamente chiara e altrettanto sfuggente. Sono suggestioni, come quelle della poesia o dell’epica.
In questo percorso di suggestioni si susseguono frasi che starebbero bene in una canzone ad altre che accarezzano filosofie più profonde, ma senza smettere mai di intrattenere.
E intanto Gaiman dà una voce a tutti, dai re agli emarginati, dagli angeli agli animali, ogni voce con la stessa dignità, lo stesso peso, in un gesto ancora oggi dopo quarant’anni straordinariamente provocante, ma senza alcuno sforzo. Celata nella pietra come le figure di Michelangelo, questa dignità l’avevano sempre avuta, quale sforzo poteva costare riconoscerla e portarla alla luce?
Lo stesso sforzo necessario a raccontare una storia come se fosse sempre esistita, anche se nessuno l’aveva mai raccontata prima.
Per ora vi lascio, ma come vi dicevo, di Sandman abbiamo solo iniziato a parlare.
Aspirante studente e pigro dalla nascita, appassionato di storie in ogni forma e di sentenze sensazionalistiche poco argomentate. Per altri dettagli vi rimando all’autobiografia che non scriverò mai dal titolo provvisorio di ‘Indecisi’ – ‘Mainstream’ era già preso.