Scott Snyder sarà noto ai più in quanto autore legato all’uomo pipistrello, che sia in riferimento alla sua prolifica run sulla testata Batman—con La Corte dei Gufi, Morte della Famiglia, Anno Zero…—o al maxi-evento Metal, Heavy Metal, e quelle altre storie che ha scritto rifiutandosi ostinato di lasciar andare la creatura. Scrivere Batman dev’essere come l’eroina. Tuttavia, non è stato Batman a renderlo noto, e anzi sarebbe strano soprattutto negli ultimi anni un esordiente su una testata così di rilievo.

L’esordio dell’autore nel mondo comics avviene in Marvel nel 2009, ma questa parte non ci interessa, e poi tanto dura poco. A marzo del 2010 infatti, meno di un anno prima di mettere le mani su Detective Comics—dove scriverà The Black Mirror, ma così, giusto per riscaldarsi, eh—pubblica sotto Vertigo una serie tutta sua e che include, a dispetto della sua relativa inesperienza, un piccolo contributo nientemeno che della superstar dell’horror/thriller Stephen King. I due erano infatti già entrati in contatto in seguito all’esordio di Snyder nella narrativa, avvenuto pochi anni prima.

Proprio di quella serie nata sotto la oramai defunta Vertigo voglio parlare oggi (facendo riferimento in particolare ai primi due archi narrativi, ovvero al primo ‘volume’), perché spesso quando si parla di Snyder in realtà non si parla di lui come di sceneggiatore supereroistico, bensì horror, e la sua prima storia di successo, vincitrice di un Eisner e di un Harvey Award, si intitola American Vampire.

Brad Pitt in una scena poco nota di Once Upon a Time in Hollywood.

American Vampire è un horror atipico in verità, ma come del resto a me risulta sempre l’horror a fumetti. Può essere inquietante, fare impressione a tratti, può giocare con la psicologia e rappresentare l’orrore e la paura, prima ancora che cercare di suscitarli. Penso sia perché tutto sommato si tratta di un medium che genera distanza, nella sua staticità di facciata, nella facilità con cui il lettore ne manipola il ritmo, nella necessità di elaborarne il contenuto più ancora che per la narrativa, e non intendo a posteriori con un giudizio quindi di profondità, ma proprio all’atto pratico della fruizione. Scott Snyder e colleghi (nello specifico Stephen King, appunto, e Rafael Albuquerque) sembrano rendersi conto benissimo di tutto questo, e abbracciano la stranezza di ciò che si trovano a produrre, ne assecondano la leggerezza quando non si può fare altrimenti.

In basso una tavola da Wytches, in alto una copertina di Greg Capullo per la Corte dei Gufi.

Di Snyder ho letto sia la Corte dei Gufi con immenso piacere, sia il suo Wytches. È interessante notare come American Vampire non somigli veramente a nessuna delle due storie, ma le cito ugualmente perché presentano due poli distanti dell’orrore: da una parte l’equilibrio tra la claustrofobia e la sensazione di trovarsi esposti, l’immedesimazione nella psiche che crolla di un personaggio straordinariamente forte—e tanto più spaventoso ne risulta il tracollo proprio in virtù della sua forza—, dall’altra l’orrore atavico intravisto tra le fronde, l’oscurità distante ma mai abbastanza, il mostro, deforme e malvagio, che alla fine ci abita.

La ‘prima’ protagonista di American Vampire si trova in un punto imprecisato tra i due mondi, in quanto al contempo preda e predatore, vicinissima inoltre ai suoi carnefici e alleata di un cane da guardia sonnacchioso dotato della forza, e del guizzo di follia, necessari se volesse per farla a pezzi. Una danza con il diavolo che si declina di volta in volta con i toni di una ballata western o un nostalgico notturno, complice non solo l’andirivieni della narrazione non lineare, ma lo scontro contemporaneo, fisico, presente, tra epoche e mondi diversi attraverso i loro rappresentanti d’eccezione: i vampiri.

Se posso trovare una pecca, è che quando questo scontro si fa esplicito porta con sé un alleggerimento del tono. Perché è vero che la sostanza dei mostri si rivela essere tutt’altro che immaginaria, e il loro divorare corpi ha un riscontro fin troppo reale data la posizione che ricoprono e i modi in cui il tutto avviene; ma è vero anche che l’alternativa, il vampiro americano, lo spirito ribelle, e l’ottimismo con cui se ne afferma la superiorità tutto sommato anche morale pur a tinte scure di fumo, non possono che far sorridere.

Harvey Weinstein organizza una festa con alcuni colleghi.

A salvare ogni momento, anche il più ingenuo e cartoonesco, ci pensa però la scrittura sempre magistrale, capace di generare la giusta distanza tra i diversi piani temporali e i diversi livelli della narrazione, a tratti quasi un diario in soggettiva, a tratti il racconto di un racconto, ricucendoli poi quando necessario con un uso sapiente di colpi di scena e cliché. Sapiente perché il lettore se li aspetta, ma in qualche modo si rende anche conto che gli autori lo sanno e hanno spostato l’attenzione dalla vicenda alle reazioni dei personaggi quel tanto che basta a non far pesare mai la vecchiezza del trucco.

Insomma una bella lettura, se volete un giudizio in chiusura, che mi lascia con un solo dubbio: con qualunque demonio Snyder avesse preso accordi in passato, mi chiedo perché non stia cercando di rimettersi in pari con i pagamenti. Lo rivogliamo in forma al più presto.


MrPrep

Aspirante studente e pigro dalla nascita, appassionato di storie in ogni forma e di sentenze sensazionalistiche poco argomentate. Per altri dettagli vi rimando all'autobiografia che non scriverò mai dal titolo provvisorio di 'Indecisi' - 'Mainstream' era già preso.