Riassunto della scorsa puntata
Per chi si fosse collegato solo ora, ho provato – in tempi lontani – ad abbozzare una visione storico-critica del sottogenere supereroistico, partendo dall’età della pietra (e dell’oro) dei supereroi fino – quasi – ai giorni nostri. Spinto dal periodo “the boys” decisi di mettere nero su bianco le mie idee su Miller, Millar, Moore, Ennis, Ellis ma non in quest’ordine (vedi qui). Sono venute fuori due tappe essenziali: una prima introspettiva, forte del suo granitico fondamento milleriano (anche Moore ha il suo ruolo ma “mooriano” è cacofonico) e una seconda tappa, a cavallo dei due millenni, schifosamente politica e dunque più propensa alla sfera “esterna”. The boys, brillantemente in linea con la sua linea narrativa, funge da bad boy, emancipandosi dalla linea storica demarcata e uscendo dagli schemi. The boys difficilmente, sul piano teorico critico, può esser visto come la prosecuzione diretta di quanto lasciato da Millar ed Ellis, ma se non The boys ed Ennis chi allora? Chi rappresenta i giorni nostri? Abbozzai una risposta: Tom King e ve la lasciai lì. Ma andiamo con ordine: come sono arrivato a questa risposta? Un processo dialettico, ve lo dico subito. C’entra Hegel, ma non solo lui. Dialetticamente parlando tutto torna: una prima fase, la seconda come negazione della prima ed una terza che raccoglie il tutto e si pone come apparente capolinea (ricordatevi che in Hegel vi è sempre una nuova apertura. Non dimenticatelo all’interrogazione). Tom King è tutto questo, o meglio lo sono le sue due opere che qui voglio introdurre: Visione (di cui trovate un bell’articolo del buon Prep) e di Mister miracle (di cui parleremo oggi). Mi auguro di poter tornare a parlare di altre opere del buon King, come Omega men, Sheriff of babylon e, prossimamente, anche del suo Batman. In ogni opera di King intravedo ciò di cui voglio parlare, ma per finire questo specchietto voglio mettere in campo altri due pezzi da novanta per chiarire (e confondere) il mio metodo storico critico: Husserl e Heidegger.
Pseudo-inutile specchietto filosofico
Infatti, convinto che fossilizzarmi su un metodo puramente dialettico sia deleterio, vorrei colorare il processo circolare con un paio di concetti, quello di Epoca ( e di Epochè) e di Essere. In Husserl Epoca ed Epoché non sono poi così diversi, e la vicinanza etimologica lo attesta. L’Epoca, come è l’Epochè in Husserl, è un momento di sospensione che, nel caso dell’epoca, è storica. Parliamo di epoca quando avvertiamo un arresto, un momento di caratterizzazione. Le epoche si distinguono proprio in virtù di una negazione – giustamente hegeliana- ovvero inclusiva, determinante. Se la storia fosse tutta uguale a se stessa non avremmo epoche; ogni epoca si caratterizza – retrospettivamente- per qualcosa, e per questo qualcosa la ricordiamo. Ciò accade identicamente in Heidegger. L’Essere si manifesta, di volta in volta, in diverse modalità e proprio questa negazione – o diversità – pone la varietà storica. Se l’Essere si manifestasse una volta per tutte, non avremmo storia. Sembra tutto piuttosto hegeliano, ma non è fino in fondo così. Hegel forse è troppo ottimista, si può solo andare avanti nel suo quadro storico e logico. In Heidegger e Husserl no, si può tornare indietro, si può procedere a zig zag, si innestano crisi, dimenticanze, nichilismo. Con questo non voglio certo proporre una critica a King, il quale invece sicuramente rappresenta un momento di enorme maturità, un momento di continuità dialettica con le prime due tappe ma, a mio giudizio, innesta anche il seme di una possibile crisi. Ora il tutto è ben più drammatico, dico bene?
Ultimissimi chiarimenti
Mi sembra poco coerente mettere in mezzo Heidegger senza giocare poi io stesso con le parole. Nel titolo risuonano due momenti: l’escapologia e l’escatologia. Due termini diversissimi ma che, anche in questo caso, sono un tutt’uno nella figura di Scott Free, ma anche nella figura del suo scrittore di turno: Tom King. Infatti, il momento escatologico dell’intero percorso storico sembra condensarsi proprio nelle sue mani. Come nel precedente articolo, abbiamo due piani di lavoro: narrativo e metanarrativo. Le sorti del mondo Dc in questa frenetica storia di divinità e le sorti del super eroe come archetipo.
L’articolo si dividerà in due parti, dove in una prima proverò a render chiaro tutto questo percorso di cui mi preme parlarvi e dove vi darò un quadro preliminare dei testi presi in esame, per poi concludere con uno specchietto spoileroso su Mister Miracle. Quindi chiunque non abbia letto questo imprescindibile del fumetto potrà trarne motivi per recuperarlo nella prima parte del mio articolo e chi è già convinto di aver letto un piccolo capolavoro potrà ritrovarsi o entrare in contrasto con la seconda parte. Finiti i preamboli partiamo a bomba.
Il circo-lo dell’escapista
In una formuletta non del tutto corretta ( e alla fine capirete il perché) non faccio altro che sintetizzare quanto supposto nel primo articolo e ribadito nel preambolo. King, a conti fatti, è un ritorno a Moore. Un ritorno esplicitato dallo stesso autore che non ha mai nascosto il suo enorme debito nei confronti del bardo e di come gli intenti di Watchmen siano gli stessi della sua carriera fumettistica. Il primo momento di maturità dei comics si poneva come un punto di contrasto e di cesura con l’archetipo del SUPER-eroe; archetipo che ho deciso di scrivere in questo curioso modo per provare ad enfatizzare un aspetto chiave del super eroe che fu: una superiorità piena, in un senso tanto fisico quanto morale. SUPER-eroe e supereroe non sono dunque sinonimi qui. Prima i supereroi erano SUPER-eroi, ora non più. Il merito? Moore e Miller, ancora una volta. Jack Kirby, che nel testo di King che oggi prenderemo in esame è centrale, insieme al buon Stan (e gli autori di sup), scolpirono una statua di un essere superiore in ogni aspetto. Il Batman di Miller, o gli eroi di Moore, erano l’esatto opposto. Scuri, cupi, fragili… reali, concreti. King fa la stessa cosa, e in questo non ci sta nulla di nuovo. Decide di farlo attaccando delle creature di Kirby che avrebbero forse ogni diritto di essere perfetti: i nuovi dei. Ironico che il creatore degli dei sia un essere umano (vero Feuerbach?), ma l’operazione di King non solo sembra voler esplicitare, meta-narrativamente, una profonda natura umana in questi esseri kirbyiani ma ha la pretesa di rendere lo stesso Kirby narrativo. Un’operazione allucinata e che non risulterà del tutto chiara a chi non ha letto Mister Miracle. Hegelianamente, ma poi proveremo a raddrizzare la traiettoria inserendo una prospettiva husserliana, il terzo momento non è il primo ripetuto, bensì un primo che è uscito da sé negandosi (il secondo momento dialettico, per noi il duo Millar-Ellis), ha conosciuto, ha subito, ed è ritornato in sé come terzo momento, che è un primo momento più ricco. Altrove ho provato a vedere in Ulisse un perfetto esempio di dialettica. Per spiegarmi lascerò qui solo una domanda: pensate forse che l’Ulisse del Ritorno sia lo stesso e identico dell’Ulisse della partenza (vedi qui)?
King scrive nel nuovo millennio con una vita privata più movimentata di quella di Moore, ha letto Moore (e già qui abbiamo una bella differenza, anche se battute a parte Moore è talmente autoreferenziale che forse va bene uguale) ma ha letto anche Millar, Ellis, e con questi – proprio per la sua vita privata – condivide sicuramente i momenti estrinseci, i momenti politici. King è americano, Moore no. King è un padre, un marito, Moore anche, ma non lo diresti mai. Un esempio paradigmatico è nell’uso dell’iconica griglia a 9. Puro emblema del duo Moore-Gibbons, ripresa piene mani da King. Sarebbe un errore, però, vederci in questo un mero citazionismo, essendo pressoché strutturale dell’autore, ma sarebbe a maggior ragione un errore sovrapporne l’uso con la declinazione di Gibbons e Moore. L’uso che ne fa King è radicalmente diverso, usata per scopi diversi e che dà, alla fin fine, sensazioni diverse. Capite ora cosa intendo con ritorno al primo? King assomiglia a Moore, come le due griglie sono effettivamente le stesse, ma internamente la differenza è abissale. Se così non fosse, King non sarebbe riconoscibile, ma lo è. Lo è tantissimo. Lo ami o lo odi per questo, ma ti accorgi subito di chi è la penna nelle sue storie. Vuoi per l’uso dei silenzi, delle ripetizioni accurate di alcune parole nei suoi dialoghi per costruire un ritmo, delle situazioni intime, di routine casalinghe; vuoi – sintetizzando nei migliori dei modi – per il suo tono. A mio giudizio ciò che differenzia King da tanti altri autori è una questione di tonalità. Prendiamo Mister miracle e facciamo insieme un esperimento. Dopo averlo letto interamente, e aver preso coscienza dell’enorme questione che nell’opera fa solamente da sfondo, spesso invadente, ma comunque solo da sfondo, chiedetevi come sarebbe stata l’intera narrazione qualora questa storia l’avesse scritta, non so, Geoff Johns. Anche nei momenti più concitati e apocalittici, King fa dire ai suoi personaggi un qualcosa di radicalmente opposto a ciò che la situazione richiederebbe. Si parla delle sorti dell’intero universo e Mister miracle che fa? parla di pareti divisorie, di un secondo bagno, di cambiare casa con la propria moglie. L’intero andamento, l’intero tono dell’opera, si sposta su una tonalità atipica per il fumetto supereroistico. Quel che accade è, musicalmente parlando, la trasposizione di un genere su tonalità nuove (o ritrovate). Il germe della crisi sta proprio qui, ma ne parliamo più avanti.
Genesi e Dei
La genesi dell’opera è particolare. King racconta di come fu folgorato da questa idea in un periodo di piena crisi legata al dover scrivere Batman, finito in ospedale per questo… TAC! arriva l’idea. Non penso sia un caso se poi Mister miracle si apra con una visita in ospedale, con un eroe morente, un dio morente. Visione metteva al centro la routine, la vita privata, costruita ad hoc da un essere sintetico (vedi qui). Un atipico punto di vista che si inquadrava in un rifacimento di Desperate housewive marvelliano. In casa Dc, abbiamo parimenti un punto di vista particolare: quello di un dio che non si costruisce ma si ritrova, pur accidentalmente, in una vita quotidiana. Smontare un super eroe e un dio al fine di umanizzarli è il compito che King si prefigge. Le sfumature sono anche più drammatiche e pesanti di quel che vediamo in Visione, e tolte le somiglianze negli intenti e nell’uso della tonalità-King, le due opere internamente sono molto diverse (per fortuna). Senza dubbio Mister miracle è “Il visione della Dc” perché è la miniserie da 12 numeri che Dc voleva dall’autore, investendo in chi aveva – proprio con Visione – colpito nel profondo; ma se avete letto Visione e non ancora Mister miracle, frenati dal dubbio di una rilettura, non pensateci due volte e compratelo. In Visione un riferimento importante era Shakespeare, qui invece è Cartesio.
Una reinterpretazione suggestiva – ma non filosofica – del cogito ergo sum fa da fulcro a tutto il resto. La garanzia di una realtà intorno a noi è data dal volto di Dio davanti a noi. Tutto però è fragilissimo e di fatti siamo tanto in dubbio di aver poi davvero visto il volto di dio quanto del fatto che la realtà che leggeremo sia tale. Tutta la narrazione, con il solito tocco elegante di Gerads, è piena di distorsioni. Cosa è reale? Cosa non lo è? Non lo sapremo mai, ma nella parte spoilerosa proverò a fornirvi delle linee guida. Cartesio non è l’unico riferimento filosofico nell’opera, un riferimento meno noto e – questa volta implicito – è quello che King fa con Jeremy Bentham, padre dell’utilitarismo inglese.
Bentham presta la voce ad una comparsa che però sembra svoltare tutto: l‘utilitarismo inglese massimizza il maggior bene possibile per il maggior numero, è la formula della vita, o per rendervelo più Dc è “l’equazione dell’anti-antivita”. Equazione centrale nella genesi di Darkseid, che in quest’opera (e per questo vi dicevo di provare a leggerla in mood più Crisis e meno King) sembra svelata del tutto. Potenzialmente la crisi Dc più critica mai letta coinvolge, come è giusto che sia, gli dei di questo universo. Cadranno come birilli, e la presenza di Darkseid sarà sempre più ingombrante. La resa di questa presenza sarà data dai giochi geometrici di Gerads nell’iconica griglia. Un momento d’arresto e suspence in cui tutto è nero, una volta su nove. Darkseid è, non fa. Un altro spunto filosofico non da poco che desoggettivizza il dio oscuro rendendolo un male necessario e onnipresente, anche nella quotidianità. Qualcosa va storto? Darkseid is. ma questo “è” dove sta? Rispondere a questa domanda significa comprendere l’equazione dell’antivita. L’inattività, l’odio, il distacco, la negatività, il dolore, la fuga da qualcosa, fuggire dalla vita, scappare. Vi basterà poco per iniziare a credere che Scott Free sia tutto questo e che dunque sia il legittimo (seppur non naturale) figlio di Darkseid. L’escapologo per eccellenza, che scappa da tutto ma che – come tutti – non può (forse) scappare dalla morte, e dunque decide di tuffarsi al suo interno, perché scappare nella morte è per antonomasia scappare da tutto. L’opera inizia così, con un tentato suicidio. Una morte fortemente voluta proprio perché – forse – Scott è l’antivita stessa, costruito (e decostruito) minuziosamente negli anni da Darkseid per diventarlo.
Mister miracle è la storia di una ricerca. Una ricerca di Dio, di senso. Un viaggio prima del patibolo, fatta di tramonti e riflessioni su Dio. il suo è un tendere verso qualcos’altro. Sempre. Sia che ricerchi sia che stia scappando. Scappare e ricercare sono simili, perché presuppongono uno stato di inadeguatezza dove ci si trova e dal quale si vuol fuggire tendendo verso l’altro. Una via di fuga come ricerca di uno spazio sicuro ed una ricerca come ricerca di uno spazio vero. Fuggire da sé suicidandosi, è un cercare tanto la via sicura quanto vera. Cercar conforto dall’altro lato salutando l’antivita dentro di sé. Scotto fuggirà dal passato, dalla sua natura divina; ma come puoi fuggire da Darkseid se lui – semplicemente – è, ed è dentro di te? Se la griglia delle sue azioni è arrestata da una presenza oscura? Il suo suicidio è più che emotivo, è metafisico: è un gioco di forze essenziali e cosmiche. Il dramma di un Dio me lo immagino un po’ così, come qualcosa che è intimo ma che non può non essere cosmico, non può non coinvolgere con le sue scelte tutto il mondo. È un peso enorme che Scott, umanamente, decide di non accettare. E in tutta l’opera non ci sembrerà di vedere qualcosa di diverso da un uomo al centro della storia e mai un Dio. Il tempo del racconto è scandito dalla sua barba che cresce, nelle sue attività quotidiane, nel suo essere trasandato, piccolo, fragile, bisognoso di esser avvolto dal forte corpo di Big Barda. Visivamente è bellissimo e meravigliosamente anti convenzionale, un uomo abbracciato e protetto da una donna forte, una vera virago, da una potente dea. Un uomo la cui mano non completa la gigantesca impronta (fumettistica e non) di Kirby.
Persona e personaggio nell’opera, citato da King nella figura di Oberon. Padre ideale di Scott, padre del fumetto (vedete il gioco di livelli narrativi?). Altra piacevole presenza è quella di Funky che fra espressioni tipiche e citazioni storiche vi ricorderà, giustamente, l’altro grande volto dei fumetti. È tutto fluido nel testo: le identità di Orion e mister miracle (fratelli? simili? stesso padre ? niente di tutto questo), i livelli narrativi e meta narrativi, la realtà intorno, il volto di Dio, la natura di Darkseid. Tutto è tutto e il contrario di tutto. Un’opera che nonostante le riprese intimiste e decostruenti di Moore, nonostante gli intenti analoghi di Visione, si caratterizza come sui generis e di nuovo il seme della crisi, che non a caso ve lo lancio e lo ritiro, proprio come fa King con Darkseid is.
Scott è l’anti-vita?
No, o almeno non chiaramente. La soluzione inaspettata ma più semplice è quella che King, almeno apparentemente, vuole scegliere: è Orion, Darkseid uccide il suo stesso figlio e con questo gesto immondo (e classico) corona (senza dirvi esattamente come ) la sua fine. Ironia di una letteratura d’altri tempi, una soluzione felice con il nostro protagonista indenne e, di recente, padre di famiglia. Darkseid è, e si annulla indirettamente da solo. Ma è davvero possibile? Dc ci insegna che non è facile uccidere Darkseid, forse proprio perché lui, semplicemente, è. Con la morte di Orion e Darkseid non tutto finisce, le distorsioni non finiscono e anzi si fanno più inquietanti. Se facciamo un piccolo passo indietro e torniamo al momento del concepimento di Jacob, si fa riferimento ad un film: Jacob’s ladder. Se questo fosse un indizio lasciato da King per intendere il senso dell’intera opera, il finale sarebbe molto meno a lieto fine.
In Jabos’ladder abbiamo uno stato iniziale similare a Mister miracle, con il protagonista morente. Sul finale del film (SPOILERONI ANCHE QUI) scopriamo (DAVVERO, ATTENTI) che la piacevole vita vissuta dal protagonista non era altro che una costruzione mentale degli ultimi momenti della sua vita, diviso in scenari paradisiaci e infernali. E bene, se anche Mister miracle fosse questo, dobbiamo prender sul serio il tentativo di suicidio di Scott, che poco prima di morire immagina il paradiso (la vita quotidiana con big Barda e i suoi figli) e l’inferno (le scene di guerra che arrestano ritmicamente i momenti quotidiani), in questa visione delle cose i fantasmi che Scott a più riprese intravede, potrebbero esser davvero questo: anime paradisiache e infernali che se lo contendono. Insomma, così interpretato, il testo è tutto una costruzione mentale del protagonista, ipotesi coronata dalla mancanza di coerenza a più riprese (la morte di Funky e il suo sereno ritorno poco dopo, o il continuo cambiamento del colore degli occhi nei vari comprimari). A questa si accompagna una ipotesi opposta; non solo Scott realmente vive la maggior parte delle cose lette, ma ci ritroviamo in un mondo anche TROPPO reale. Se ci pensiamo qualche secondo, i super eroi Dc non compaiono mai nell’opera (a parte in un piccolissimo caso). Senz’altro nell’universo narrato esistono Batman, Superman, lanterna verde e tutti i membri principali della Justice League. Questo perché Scott ne esibisce le magliette e perché il figlio Jacob è uno sfegatato fan di Batman. Ma se fossero, come nel nostro universo, solo personaggi di finzione? Un paio di indizi ce lo lasciano credere: Scott indossa anche una maglietta di Sheriff of babylon – storia Vertigo scritta dallo stesso duo di Mister miracle, un incontestabile segno che si stia facendo esplicito riferimento alla Vertigo e dunque alla Dc comics come editore di fumetti – le parole di Metron in merito ad un universo in cui esistono numerosi super eroi, e le parole ancor più disturbanti di Oberon/Kirby Il quale, dicendo “Kid, this, all this, It’ll break your heart “, sembra ancor di più prender le sembianze di Kirby quando dice: “Kid, comics will break your heart “.
Il colore degli occhi di big barda (scuri o chiari in base alla sua natura umana o divina), il mistero dietro al bambino che disegna e i continui momenti distorti, rendono l’opera tutt’altro che chiara. Il tutto è volutamente fosco, nell’enorme mare di livelli che King ci presenta. Ogni cosa è finzione o tutto è troppo reale? Scott vive solo le fasi domestiche o solo le fasi divine? Uomo o dio? È antivita o no? Muore o sopravvive? Non lo sapremo – mi auguro – mai. Mister miracle deve rimanere parzialmente velato, proprio come è l’Essere in Heidegger. Se così non fosse, non sarebbe Essere bensì Ente, non sarebbe Mister miracle bensì una storia di super eroi; ed è qui il punto cruciale: alla fin fine abbiamo o no letto una storia supereroistica?
Crisi e origini
Ormai è impossibile ignorare i tamburi di guerra della crisi. King, nell’esasperare la visione decostruita, uccide il super eroe come forse fa Ennis con The Boys? Cambiare tonalità ad un brano non rischia di classificarlo in un genere diverso? Cambiandone gli accordi da maggiore a minore quando serve, spezzettandone i tempi musicali, abbassando o alzandone la tonalità, andando con forza a rompere le regole musicali del canone di riferimento. Un lavoro simile storicamente inaugura un nuovo genere, e forse succede lo stesso qui? In Husserl la crisi parte da una dimenticanza dell’origine, portando questo percorso per vie diverse che va un po’, alla cieca, per conto suo. È un po’ quel che vi dicevo sull’amare o odiare King per il suo riconoscibile tono: forse in molti si sono resi conto di aver a che fare con qualcosa di parzialmente diverso dal solito, comprare un fumetto di super eroi e trovarsi tutt’altro. È difficile far qualcosa di nuovo senza poi far qualcosa di diverso, sembra quasi che fatalmente il genere supereroistico non possa evolversi senza cambiare identità. King non scrive storie di supereroi: scrive storie CON super eroi, o più precisamente, con personaggi che sono chiamati generalmente così ma poi alla fine non lo sono. Per certi versi forse non lo sono mai stati, King è felice di ricordare come Big Barda sia innanzitutto il calco della moglie di Kirby e come, in questa reiterazione, sia il calco della moglie di Kirby e della sua. Personaggi figli degli scrittori, e per questo basti pensare alla genesi di Superman e dei suoi due autori. Ad un certo punto questi personaggi, nati in uno specifico contesto e per determinate ragioni (come Capitan America durante la guerra), si sono resi autonomi prendendo una propria identità. Abbiamo (husserlianamente) dimenticato gli autori alle loro spalle, anche perché poi sono diventai innumerabili – e abbiamo pensato solo ai personaggi. Indossiamo delle magliette con i loro simboli, parliamo con le loro frasi, sogniamo di avere i loro poteri. Dimentichiamo come sono nati; e forse King, nel riprendere le radici, sradica l’enorme albero che poi ne è nato e ci lascia interdetti, perplessi. Ma forse è anche il più genuino recupero di ciò che in origine questi super eroi erano. Husserlianamente, King subisce la crisi per la quale “dimentica” IL super eroe, ma proprio per questo, subendo una crisi nella crisi – dimenticando ciò che il super eroe è diventato (dimenticando a sua volta la propria origine) – King lo recupera. E tanto in modo critico, quanto in modo squisitamente originario, King pone il punto zero del super eroe (assente nel percorso dialettico in quanto antecedente) e lo innesta come un sapiente Moore nel mondo contemporaneo. Non so quanto di volontario ci sia in King e in realtà penso che il tutto sia genuinamente non concettualizzato. King, come i primi fumettisti, diventa uno sceneggiatore in un secondo momento della propria esistenza. Una vita dedicata ad altro che magicamente si arresta per scrivere fumetti, e quando lo fa, tratta i personaggi come li trattavano i propri creatori: come riflessi di qualcuno. Il proprio padre, la propria moglie, i proprio sogni cristallizzati. Non ancora archetipi finiti e definitivi, ma dipendenti dal mondo reale. Quando leggi Il suo Batman o Mister miracle, sei sicuro che quei dialoghi sono reali e che in un passato non troppo lontano hanno, magari, caratterizzato molti momenti dell’autore con la sua famiglia.
Ps: Questo è stato un articolo con un’enorme gestazione, e i più (forse immaginari) affezionati avranno notato la distanza cronologica dal primo capitolo, quello con The Boys. Vi ringrazio per esser giunti fino a qui e vi lascio con la certezza che ne continueremo a parlare, forse trovando qualche nuovo stimolo dalla rilettura del Batman di King, o del nuovissimo Rorschach. Spero, però, di ritornare con più celerità la prossima volta. Grazie a tutti!
Laureato in filosofia, maestro d’ascia e immenso mentitore. Passa le sue giornate ad acquistare fumetti che forse un giorno leggerà e mai recensirà.
Fra le altre cose è degno di sollevare mjolnir, ha un anello delle lanterne verdi nel cassetto ed è il cugino di Hegel.