Mi trovo in difficoltà nell’assemblare un giudizio definitivo su questa miniserie perché questo deve includere per forza di cose la valutazione di un contesto che ho deliberatamente ignorato fino a questo momento, ovvero la Rinascita DC.
Si parla di un oggetto che si estende e trascina da un paio d’anni, con strascichi in avanti e indietro nel tempo, tie-in, decisioni, testate, eventi, morti e rinascite (per l’appunto). Momenti di dramma, gioie condivise. DC Comics non fa tendenzialmente le cose in piccolo o con molta ironia.

Io volevo solo leggere una storia di Tom King che decostruisse come solo lui sa le maschere e i costumi, una storia di obsolescenza e malattia mentale. Non la solita pazzia da supercattivi, no, ma i problemi che un uomo reale ha avuto affrontando una situazione di stress reale (l’autore, cioè) rivisti dagli occhi di un’impersonale AI, mentre assumono le forme, i colori, i nomi e i volti (questo template ricorrente occupa una consistente percentuale delle tavole con efficacia, per cui ne parleremo approfonditamente) di decine di eroi in calzamaglia.
Che insomma è quello che ho fatto, poi, fino al #6 di #9. Dopodiché sono stato investito dalla lore, dalla continuity.
Povero Booster Gold, ridotto a momenti a macchietta, povera Harley, rimessa nei ranghi di antieroe illogico, povero Wally West,
la sotterfuga, la cattiveria, quelle frasi brutte su Barry che non merita, che andava lasciato fuori da questa vicenda! (semicit.)

L’intreccio

Il racconto si struttura in sostanza in tre momenti, dedicati ciascuno a un personaggio in particolare e alla sua versione dei fatti accaduti, dalla sovrapposizione parziale delle quali si riesce alla fine a venire a capo di come sono davvero andate le cose; e i personaggi sono proprio Harley, Booster e Wally, non necessariamente in quest’ordine né nella fabula né nell’intreccio. Nel senso, la narrazione fa avanti e indietro, i punti di vista si alternano parzialmente anche se l’attenzione si sposta progressivamente come una sorta di gradiente, e non racconta i fatti in ordine cronologico. In #1, infatti, Wally è morto.
Non andrò troppo nel dettaglio perché non vorrei dare via tutta la trama di un evento che dovrebbe essere ancora a metà in Italia e che comunque, voglio chiarirlo subito, vale la pena leggere.
Non penso sia l’evento DC dell’anno, perché c’è tanta davvero tanta carne sul fuoco di recente, ma può davvero valere la pena.
In sintesi la narrazione è costruita come una sorta di giallo, con una strage che va risolta, un colpevole che va trovato. Ma nonostante le premesse non prosegue davvero come un’indagine, con i momenti che più virerebbero in questo senso rappresentati in modo ironico, con un Batman che è quasi una parodia o una citazione, in quello che io ho letto come un personale gesto di simpatia e amicizia da parte dello sceneggiatore. Invece le dinamiche sono quelle di un puzzle, in cui i protagonisti non sanno fino in fondo cosa gli è capitato e devono rimettere insieme i tasselli. Perché Sanctuary crea esperienze virtuali, e un’interruzione improvvisa di Sanctuary crea confusione.

Atto primo: nemico pubblico?

Il primo momento è dedicato ad Harley Quinn.
Harley Quinn sta apparentemente scappando dalla strage che ha compiuto. È stata davvero lei? E come potrebbe esserci riuscita? Ha colto tutti di sorpresa magari.

King ha dichiarato di non aver scelto lui i protagonisti della storia, e in effetti arrivando in fondo non ci viene difficile credere che i volti siano stati ‘forzati’ dalla produzione, dagli editor. Forzati va però tra virgolette perché sia Harley sia Booster sono personaggi cui King è legato, e li tratta davvero con affetto, lasciando trasparire in piccole battute, frasi sussurrate e sguardi in camera tutti i livelli psicologici sovrapposti, questo almeno fino al finale.

L’apertura della storia su una strage di uomini e donne innocenti in quello che doveva essere un luogo sicuro, un rifugio per guarire, è centrale per questo primo momento della storia, e Harley Quinn, nel suo atteggiamento da psicopatica, è il personaggio più adatto a raccontarci questo atto.
L’atto pubblico, quello delle notizie sui giornali, e quello dei giudizi facili.
Ma Tom King sa dove piazzare la camera, sa come gestire i silenzi, i confronti tra gente così diversa. Sa come rendere il dramma di una giovane donna che vorrebbe fare cose grandi, ma che posto è il mondo.

Meno bene su Batgirl, ma in fondo non è la sua storia.

Atto secondo: bromance.

Booster Gold è il dramma dello psicopatico che ha compiuto la strage ma dal suo interno, invece.
Rappresenta l’analisi dell’uomo lontano dai riflettori, e a differenza di Harley non può essere il carnefice, il terrorista, siamo sicuri che lui è un eroe.

Ma ne siamo sicuri davvero? È irresponsabile, forse è pazzo. E se avesse avuto una crisi? E se non ricordasse? Harley Quinn non può essere riuscita a uccidere tutti, non può essere riuscita a uccidere Wally West. Dev’essere stato qualcun altro. Potrebbe essere stato davvero lui. Ha paura, cosa dovrebbe fare? Ha bisogno di aiuto, era in Sanctuary dopotutto anche lui.
Laddove Harley serviva a mostrarci l’umanità, il valore di una seconda possibilità, la pietà verso il colpevole, Booster ci parla di amicizia.
Può sembrare banale (e alla fine purtroppo lo diventa), ma in questo secondo atto è lo svolgimento di un naturalissimo contatto umano, e ha la naturalità di due lattine di birra, del cibo da asporto e di qualche schifezza alla televisione. Esseri umani che vivono, amano, dubitano, si confrontano e si coprono le spalle.

Atto terzo: speranza.

Il terzo momento è il momento della confessione, il momento della caduta, il momento in cui capiamo che qualunque siano le ragioni, qualunque sia la portata dei gesti, per quanto possiamo essere vicini, empatici, qualunque sia la scala delle nostre reazioni, non possiamo ignorare e non possiamo passare sopra ai fatti.
Dobbiamo perdonare ciò che può essere perdonato, essere incazzati e indignati per ciò che non può esserlo. E dopo dobbiamo giudicare lucidamente e senza rabbia. Con amore, volendo.
Quello di King è quasi un messaggio cristiano. Non che abbia connotazioni religiose di sorta, ma suona quasi come la morale del Vangelo.
E del resto questo è l’atto che parla di Wally West, e nella nuova mitologia DC Wally West significa speranza. La speranza, però, di un uomo che ha perso tutto, cosa che gioca un ruolo incisivo nella storia.

E del resto questo è l’ultimo atto di una storia che comincia con Superman in copertina. No, non c’entra niente ma ve lo volevo ricordare. Giusto un po’ di contesto insomma.

Questione di stile

Tom King è una spanna sopra gli altri.

Se volete possiamo prenderlo in giro tutti insieme. Potete dire che fa sempre le stesse cose, che la critica ci vende i mediocri, che ci piace credere che capiamo qualcosa e tessiamo le lodi di qualche parolaio senza talento giusto perché ci fa sentire intellettuali mentre lo leggiamo.
Il problema è che è vero. E il problema non sta nel fatto che Tom King possa essere un incapace, ma che, in un mondo di parolai come è quello dei comics mediamente, leggere Tom King faccia partire momenti di elogio smisurato, masturbazioni tecniche sulla storia del fumetto supereroistico messa in prospettiva, commozioni, svenimenti, ci faccia venire voglia di tirare nomination e premi a quest’uomo anche quando, come in questo caso, ci fa dono di una prestazione per lui mediocre.

Onestamente questo Heroes in Crisis, complice credo la necessità di andare dappertutto di un evento pur sempre breve ma che deve fare da ponte a chissà quante cose nella testa dell’editore, non va un po’ da nessuna parte.
E onestamente certe cose sono un po’ tirate via.

Ma basta un niente.

Basta Harley che confessa a quello che sul momento è il suo peggior nemico che, lo sai, lei in realtà odia il pudding (i layers, quanti layers).

Basta una gabbia a nove vignette, a là Alan Moore, con primo piano fisso su un personaggio che parla di sé, la firma di King.

Basta che un soggetto qualunque in calzamaglia si apra in una confessione imbarazzante.

È importante però notare come Tom King sia fondamentalmente diverso da Alan Moore nell’uso che fa di questa forma tradizionale, perché Moore ne fa il motore della sua azione, costante e ritmico, King la usa per dilatare il tempo, un fotogramma alla volta come in un film.

Batman allo specchio

Lungo silenzio, contempli il volto di un personaggio per un intero pannello mentre dice tre frasi in tutto, magari anche la stessa ripetuta più volte.
Può un disegno fatto da quattro linee, un archetipico omone con la faccia quadrata o un volto di donna troppo perfetto, può una colorazione senza quasi profondità, il gioco plastico della narrativa a fumetti americana (e Clay Mann è emblematico di questo plasticismo inverosimile), comunicarci con un primo piano altrettante cose che un volto reale, un attore a Hollywood in un film intimista?

Cinque anni fa avrei detto di no, che non era possibile.

È o non è imbarazzante?

Heroes in Crisis non è il racconto che mi ha fatto cambiare idea, è quello in cui mi sono reso conto di che mondo peggiore sarebbe stato senza questa scoperta.
Vi sembrerà banale, ma, per me, penso valga tutto il resto delle pagine.

The End

In definitiva ci sono riuscito, davvero non vi ho detto niente di Wally West.

Sul serio, c’è tanta gente là fuori che ha preso questa cosa molto più a cuore di me, fatevelo raccontare da loro.


MrPrep

Aspirante studente e pigro dalla nascita, appassionato di storie in ogni forma e di sentenze sensazionalistiche poco argomentate. Per altri dettagli vi rimando all'autobiografia che non scriverò mai dal titolo provvisorio di 'Indecisi' - 'Mainstream' era già preso.