“Long ago in a distant land, I, Aku, the shape shifting master of darkness, unleashed an unspeakable evil. But a foolish samurai warrior wielding a magic sword stepped forth to oppose me. Before the final blow was struck, I tore open a portal in time, and flung him into the future where my evil is law. Now the fool seeks to return to the past and undo the future that is Aku. “
Cosa spinge un 24enne, in un temperato fine settimana di inizio autunno, a parlare di un cartone animato chiuso – in modo tombale – come Samurai Jack? Nessuna ricorrenza (per quanto ne possa sapere) né qualsivoglia pretesto razionale [esclusion fatta per la recente messa in onda di Primal, ma me ne ero dimenticato, NdR]. Semplicemente, è in uscita una nuova edizione dell’Immortale da parte di Planet manga (ne parleremo) ed un suo adattamento per Prime Video e mi sono ricordato un qualcosa di fondamentale: a me piacciono i samurai. Un velocissimo excursus sulla genesi di questo amore, e fra le diverse tamarrate americane, emerge un qualcosa di altrettanto americano ma raramente così poco tamarro: Jack, Samurai Jack.
La polarità
Chiunque, come me, abbia visto Samurai Jack nei magici anni dell’infanzia se lo ricorderà un po’ semplicisticamente – ma anche giustamente – come la definitiva lotta dell’assoluto bene contro l’assoluto male. Senza sfumature, senza strutture. Un eroe sic et simpliciter, con tutte le virtù al posto giusto, contro il Male. Vile, oscuro, egocentrico, violento, turbolento male. La trama, d’altra parte, era semplicissima; al punto che è del tutto racchiusa nella citazione con cui ho aperto l’articolo. E dunque perché parlarne? Perché ha una quinta stagione ben più matura? Sani valori? Un reparto tecnico impressionante? Sì.
Il circolo
In ogni mio pomeriggio, ogni santo pomeriggio, Jack le tentava tutte al fine di tornare nel suo tempo e distruggere Aku. Delle volte era davvero vicinissimo, in altre si perdeva in mille affaccendamenti che ben poco lo riguardavano, ma mai mai mai è riuscito a concludere la sua missione. Il me di qualche anno fa (e dunque prima della stagione conclusiva, uscita a distanza di 16 anni dal primissimo episodio) ricordava con amarezza la ciclicità degli eventi che portavano il caro samurai a ricominciare sempre da zero. Non che mancassero, all’interno della serie, delle suggestioni e dei piccoli indizi sul futuro (possibile, e poi non confermato) del protagonista. In uno di questi conoscevamo il conturbante King Jack, in un altro – se di futuro possibile si può parlare – c’è chi ha intravisto il suo successore.
L’idea venne poi ripresa nelle storie a fumetti dedicate al samurai.
Successore? Quale successore? Niente di che: forse frutto dell’eccessiva immaginazione di chi, come me, mai ha digerito l’inesistente finale ed ha provato, dunque, a fabbricarselo. Nel (poco) finale della quarta stagione, Jack salva un bambino, il quale, seguentemente, sfoggia l’iconico sguardo del nostro samurai dando un punto e virgola alla serie. Insomma, quell’episodio voleva forse essere più di quel che rappresentava: un qualcosa di auto conclusivo. La verità, come sempre, sta nel mezzo e in effetti sarebbe poco corretto da parte mia non accennare al fatto che in un mondo così materialista, cibernetico e oscuro, Jack sia stato capace di ispirare persone, di migliorarle o addirittura salvarle. Echi che non di disperdono, ma che anzi, si ripropongono in un dolce fan service nella quinta stagione (screditando l’autoconclusività di una serie che pareva esserne la regina).
La missione (in)finita
Nel Marzo del 2017 esce Logan ed esce anche il primo episodio dell’ultima stagione di Samurai Jack. Un doppio colpo quello inflittomi due anni fa, non lo nascondo. Il secondo, soprattutto, premeva sulle corde più delicate. Pochi cartoni animati mi hanno segnato (positivamente) come Samurai Jack che di giapponese non aveva assolutamente nulla, se non una katana magica ed un kimono. Né posso ricordare chissà quali profonde citazioni, dato che molti episodi erano totalmente privi di parlato; spesso una frase o anche un solo accenno. Il resto lo faceva il notevole reparto sonoro: leitmotiv che tuttora mi frullano nel cervello, il sapiente uso dei rumori ambientali volti a creare un ritmo spesso meravigliosamente stressante, accompagnavano l’altrettanto ottimo comparto grafico; che per alcune cose ricordava altri cartoni animati di Cartoon network, ma per altri, opere di ben più alto spessore. L’essenzialità, il ritmo, l’arte nel semplice, il sapiente uso dei silenzi mi ricordano – in effetti – un Haiku e dunque il Giappone ritorna, ma in modo sottile e per nulla manifesto. Tutto questo, come si è detto, si inquadrava all’interno di una missione infinita, ciclica. 4 stagioni, mille tentativi, diecimila avversari…senza mai un morto (a parte forse un singolo caso). Dobbiamo infatti ricordare che, al limite dell’incredulità, stiamo comunque parlando di un cartone per bambini e il sapiente Genndy Tartakovsky, pur di presentare una violenza inaudita, ben pensò di riempire la sua opera di robot. Robot travestiti da donne, da cavalieri, da draghi, da scimmie mercenarie. Qualsiasi cosa. Qualunque cosa distrutta da Jack esplodeva, andando a rompere i suoi continui silenzi. Quando però scopriamo che la quinta stagione sarà targata Adult swim (sì, pensate a Rick and Morty) qualche dubbio ci sorge; a maggior ragione dopo l’uscita della locandina.
Ronin Jack
Sangue, prodotto maturo, colonna sonora ancor più di impatto, struttura degli episodi inedita: IN CONTINUITÀ. Ebbene sì, in più di dieci anni, gli autori avevano capito cosa gli ormai ventenni volessero. Niente più bianco e nero, niente più “morti” edulcorate, niente più episodi autoconclusivi – ma soprattutto – niente più circolarità (…sicuri?). un Genndy Tartakovsky più maturo, un Jack più maturo ed un pubblico più maturo. Perché la quinta stagione di Samurai Jack è rivolta a noi; è una lettera d’amore a chi, all’epoca, era un bambino o poco più. E l’ultima stagione – in questa lettura – non è snaturata come potremmo in prima istanza pensare; non più di quanto lo siamo noi nei confronti del nostro passato. Crescere è naturale, ed è un processo naturalmente connesso al cambiamento. In questo lungo divenire vi ritroviamo Jack, alla fine del proprio sentiero. Nella sua realtà sono passati 50 anni dal nostro ultimo incontro; ormai il fantomatico successore avrà la sua bella età, ma non il nostro guerriero. Non è invecchiato di un giorno. Tenuto in vita – e giovane – forse proprio dalla necessità assoluta che la sua missione abbia una fine, una fine agognata, ricercata. In questi 10 anni (e 50 per lui) è come se ci avesse atteso, e nell’attesa, si forse perso.
Per “ronin” si intende un samurai caduto, un guerriero disonorato rimasto senza padrone. Un padrone (umano) il nostro protagonista non lo ha mai avuto, ma è sempre stato un samurai; questo perché portava su di sé il peso delle responsabilità nei confronti dell’intera umanità; la quale, ponendosi come padrone ideale, contava sulle capacità dello spadaccino di porre fine alla vita del male assoluto, Aku. Il migliore dei samurai (con il più alto padrone) decade nel peggiore dei ronin (per lo stesso motivo), e la sua perpetua vita non è che una machiavellica punizione. Jack conosce in questa stagione, forse per la prima volta, delle sfumature ed una concreta umanità. Conoscerà l’amore e man mano si ritroverà. Chiunque abbia avuto modo di leggermi più di una volta, saprà delle mie “derivazioni hegeliane”, e dunque, non desterà sgomento se definirò Samurai Jack un eroe hegeliano. Questo perché la circolarità gli è propria: gli è necessario perdersi, negarsi, aprirsi alla sua alterità per ritornare a sé (e in sé). L’autocoscienza e il riconoscimento, in Hegel, sono momenti indissolubilmente legati all’alterità. Un conoscersi che è un conoscersi mediate l’altro, il proprio altro. E così Jack conoscerà davvero sé perdendosi e conoscendo il suo altro: la sua concreta umanità, il fallimento, la negazione di quelle proprie virtù, la perdizione, l’omicidio. Un discendere per risalire; ponendosi – in definitiva – come individuo concreto (che per Hegel significa tanto reale quanto realizzato, determinato, riflesso su di sé, e pertanto, conosciutosi). La quinta stagione, dunque, si caratterizza per essere la più circolare di tutte e lo è proprio perché, rispetto alle altre, mette in moto un movimento (ve lo dicevo io). Jack si perde e si ritrova; e solo ora, nella sua completezza di un individuo realizzato, può terminare la sua missione.
Il vuoto
Il finale si mostra come un bilanciamento perfetto di conquiste e perdite. Una vittoria amara, una vittoria di Pirro. Il nostro samurai tornerà nel suo passato e sconfiggerà Aku, ma con quest’ultimo, morirà anche il futuro da questi posto e Jack, così, perderà il proprio amore. Innegabile come Genndy Tartakovsky ti sappia destabilizzare. Sapevi da 15 anni che sarebbe finita così, ma alla fine quasi non vuoi. Sapere il tutto come conclusosi – e anche qui in un perfetto cerchio, con un ritorno all’inizio – ti svuota. Forse anche più di immaginare perpetuamente Jack e la sua missione. D’altronde, non lo hai mai conosciuto senza, e probabilmente, nemmeno lui sa vedersi privo di scopi; privo di quella sua estensione naturale qual era la missione; giacché la sua infanzia è stata caratterizzata da continui addestramenti preparatori, culminanti in un preciso – e sfuggente – attimo decisivo che non si vuol preoccupare del dopo. E quindi davvero non ce la fai ad immaginarlo sereno, felice. Il finale si colora di malinconia, e non è per niente quel lieto fine che ci aspetterebbe da una lettera d’amore. E come un innamorato, sei confuso e non hai risposte certe, non hai in mente il tuo finale giusto, ci sta sempre qualcosa che non va e alla fine non sai cosa vuoi.
La quinta stagione, per dare un accenno di recensione, è la maturità del “brand“, la sua età adulta [in merito, “Tomb Scene Soundtrack” rappresenta un meraviglioso lavoro di sintesi da parte del compositore, non fatemi mettere link che mi arrestano, NdR]. Fatta di cambiamenti, di compromessi, di dolore, di sfumature, di sangue, sofferenza e morte. Si esce dall’infantile circolarità del bene contro il male puro e ingenuo, delle azioni senza effetti, del ricominciare senza accusare il peso della sconfitta. Forse la sua è una caduta dal piedistallo, laddove non aspiri più ad esser Jack: in un qualche modo lo sei diventato, crescendo entrambi e incontrandovi a metà strada. Forse, per la prima volta, empatizzi con lui – e proprio a causa di questo legame emotivo – non puoi che rattristarti per lui e con lui, ora che il cerchio si è chiuso per l’ultima volta. Ulisse è tornato a casa…e poi?
Laureato in filosofia, maestro d’ascia e immenso mentitore. Passa le sue giornate ad acquistare fumetti che forse un giorno leggerà e mai recensirà.
Fra le altre cose è degno di sollevare mjolnir, ha un anello delle lanterne verdi nel cassetto ed è il cugino di Hegel.