È passato un anno e mezzo dall’uscita del primo episodio di Primal. Sì, sto parlando di nuovo di Genndy Tartakovsky, di eroi in mutande di pelliccia e grugniti ferali, e di Adult Swim. La serie conta attualmente 10 episodi, è tutt’ora in corso, e se avete un indirizzo IP statunitense potete vedere metà degli episodi sul sito del canale TV, l’altra metà c’era prima, mi dispiace siete in ritardo, gne. Ma lo capisco, è anche colpa mia, era mio dovere avvisarvi.
Ovviamente si spera che la serie possa arrivare presto anche qui oltreoceano.
Scusa, che ha detto?
La prima cosa che salta all’orecchio è l’assenza di dialoghi.
Vai avanti per cinque minuti buoni a leggere i sottotitoli dei rumori come uno scemo, per poi accorgerti che non ce n’era assolutamente motivo, rimetti da capo l’episodio e te lo vedi stavolta come si deve. Primal è un’opera selvaggia e ambient, è arazionale, parla ai nostri sentimenti e ai nostri istinti, e non gliene frega niente di essere coerente nel suo linguaggio, brillante nei colpi di scena. Il protagonista può essere piccolo piccolo quando è all’angolo e ha paura, o enorme e stupidamente forte quando è così che si sente o ha bisogno di essere.
Adrenachina.
Il protagonista in realtà sono due protagonisti: Spear e Fang.
Spear significa Lancia, è l’ominide affranto. Fang significa Zanna, è la teropode iraconda. Presumo sia un Tirannosauro, un Allosauro o qualcosa del genere, ma davvero è così poco rilevante. Uno, perché non farebbe in concreto nessuna differenza dato che lo show non va abbastanza per il sottile per farci pesare la cosa; e due, perché il mondo di Primal non somiglia a nessun posto che sia esistito davvero.
Lasciamoci perciò trasportare da versi e fragori, e da una colonna sonora tanto isterica quanto curata, che continua a farci sobbalzare, a distrarci, a richiamarci, a prenderci in giro. E lasciamoci trasportare dagli sguardi e dai gesti, commossi dalle reazioni afasiche di una gamma di personaggi tutt’altro che privi di fascino o espressione.
Il mondo perduto
La cosa che ho amato di più dopo la colonna sonora è la mitologia dell’ambientazione. Tartakovsky ha fatto una scelta ovvia, mettere insieme un’età della pietra pop, una che è esistita solo nelle nostre fantasie di bambini. È fatta di piante giganti, vuote distese, enormi massi dalle forme improbabili, astri senza fisica, bestie mostruose e DINOSAURI, uomini-scimmia che si prostrano al tramonto, cultisti che venerano le ombre, sangue, un sacco di sangue, tantissimo sangue, e l’ignoto. Si tratta di un paesaggio emotivo puntato dritto all’infanzia di chi è stato tirato su da Jurassic Park, dalla Valle Incantata, da Cadillacs and Dinosaurs nei cabinati già vecchi, dai dinosauri di polivinile con e senza corazze e strani cannoni, in cui convivono ere distanti, un passato mai esistito dell’umanità e un mesozoico esasperato e crudele. Quanto li adoravamo i dinosauri.
Sono molti i momenti della serie in cui l’ignoto ricompare, con forme sempre diverse, perché Tartakovsky si diverte a declinarlo nei suoi rapporti con l’uomo innanzitutto. Fang difficilmente trema di fronte alla morte, praticamente mai lo fa di fronte alla prospettiva del pericolo, prima cioè che la morte si mostri con il suo volto di circostanza. Spear ci porta invece continuamente in un ciclo di scoperta e riscoperta dell’istinto e dell’ingegno. Il pericolo si annuncia prima di mostrarsi, la paura si annida nella sua mancata conoscenza, si palesa nell’orrore dell’incontro, e porta alla ricerca di un espediente o della forza di domarla. L’autore gioca sapientemente con tutti i cliché del caso: la paura del buio, l’incontro con l’occulto, il dolore fisico, l’orrore dei sensi, la perdita; e Spear reagisce in modi non del tutto previsti, si nasconde, si ribella, fugge, combatte, si dimena infine, esasperato e messo all’angolo.
Dieci passi, dieci lezioni
In superficie, la serie parla della sopravvivenza. Parla di procacciarsi il cibo e un riparo dai pericoli immediati, ma anche di sopravvivere all’altro e perpetrarne la memoria, di sopravvivenza della specie. E la sopravvivenza per uno come Spear, privato dei suoi riferimenti, non può che avvenire muovendosi e mutando. Non sappiamo chi o cosa cerchi, ma ci è subito chiaro che non può restare dov’è, sarebbe l’alba di un lento e sofferente declino, e anche lui lo sa. Fang si fida, per ragioni che è superfluo spiegare, nonostante non sia quella la sua via o quella della sua specie.
Così questa storia di sopravvivenza diventa anche una storia di apprendimento. Spear è costretto a imparare prestissimo che esistono genti diverse da lui, con strani problemi, e che deve schierarsi; che esistono luoghi diversi, afflitti da strani morbi e dove la terra si apre e ti divora, o abitati da chissà quali pericoli e chissà quali inattese risorse. Ed è costretto a imparare (o rimparare più probabilmente) a fare affidamento sull’altro.
Primal è infatti innanzitutto un inno alla vita e una storia di amore. Non omnia vincit amor, ma senza cosa resta?
Beh, Primal ci insegna che senza amore resta il fango e le viscere, e ancora amore dopotutto. Quella di Spear e Fang è una storia di profonda amicizia, ma non basta questo. Ogni incontro o scontro ci lascia una lezione sulla cura o sull’empatia, sulla morale di un mondo crudo in cui nessuno l’ha ancora formulata.
Le puntate di questo racconto sono in larga parte autoconclusive. Ogni episodio ha modo di mostrarci un pezzo di questo bizzarro mondo, che sia una specie, un mostro, una cultura. Culture di bestie e di uomini, non fa differenza. Un mammut può insegnarci il rispetto dei defunti e una vecchia rugosa il valore di una nascita, un dinosauro può parlarci dell’amore per i figli.
Quello che ne risulta è un’elegia brutale, da guardare con lo stomaco e l’amigdala.
Aspirante studente e pigro dalla nascita, appassionato di storie in ogni forma e di sentenze sensazionalistiche poco argomentate. Per altri dettagli vi rimando all’autobiografia che non scriverò mai dal titolo provvisorio di ‘Indecisi’ – ‘Mainstream’ era già preso.