I vasi d’acqua volanti di Zenn-La sono sempre vuoti.
Il solfito di metano che consente all’acqua di levitare è velenoso per tutte le specie di fiore note.
Il mistero quindi non è perché sia vuoto, ma perché si possa voler realizzare un vaso simile.
La bellezza o forse la meraviglia di un miracolo, di un vaso di acqua fluttuante, sono forse tali da giustificare l’insensatezza?
Siamo legittimati di fronte alla meraviglia della vita, o alla richiesta di essere felici, di sentirci completi di fronte allo spettacolo di un figlio che nasce, per esempio, o davanti alla nostra ricerca egoistica di un complementare, di qualcuno da amare; siamo legittimati, mi chiedo, a travolgere tutto il resto?
La natura, la serenità del prossimo nostro, la gioia di una creatura che stiamo mettendo al mondo, destinata a un’esistenza forse persino storpia, incompleta, alla morte?
E la domanda non è “Vorresti un figlio?”, la domanda è “E se fossi certo che sarà disfunzionale?”
Amniocentesi
Viviamo in un mondo in cui molte delle prospettive future di un nascituro sono già potenzialmente note prima della sua nascita. La capacità di prevedere alcune disabilità tramite test genetici è solo un esempio e nemmeno ovvio o largamente diffuso (certe procedure comportano comunque dei rischi che non vanno trascurati). Ma la condizione socio-economica, le prospettive ambientali, gli anni di vita che ci restano personalmente, molti aspetti della sarà-vita un tempo del tutto ignoti si manifestano davanti a noi in anticipo. In larga parte, decidiamo di ignorarli.
Ci illudiamo che nascere debba necessariamente essere un salto nel vuoto, e ci adagiamo a volte sul fatto che sia stato effettivamente così per i nostri genitori, i loro genitori; ma non deve essere così, possiamo pensarci.
Non dico che mettere al mondo un figlio sia per forza stupido o egoista, come un primo sguardo cinico ai fattori che ho esposto ci farebbe credere. Se io mi trovassi nella condizione di decidere ora, credo che opterei per un’adozione, ma il dibattito è in realtà prolisso, gli argomenti a favore e contro si accumulano senza quasi mai lasciare la discussione: le nascite assistite quando non completamente artificiali, il futuro sguardo alle manipolazioni genetiche, e poi tutto ciò che riguarda l’ecosistema, l’eccessiva popolazione e contemporaneamente l’invecchiamento della stessa, il confronto tra società diverse, la capacità di mantenere eventuali figli e persino l’estinzione della specie.
Sono andato troppo avanti?
Onestamente, non importa tanto dove decidiamo sia più giusto esaurire il discorso, rimaniamo esseri umani. Mettere al mondo un figlio è sempre una decisione aperta, non è mai stata scontata anche se ci piace pensarlo. Direttamente o indirettamente, insomma.
Mi sto immaginando degli adulti consenzienti, non necessariamente eterosessuali, che decidano di costruire una famiglia. A volte si limiteranno alle considerazioni banali o a nessuna considerazione affatto; credo che, di fronte alla vastità del mondo, guarderanno a sé.
Siamo pronti? “Voglio essere un padre, una madre?”, o quale che sia il suo desiderio. Possiamo mantenerlo? Saremo ancora insieme fra un certo numero di anni? Nessuna di queste domande riguarda direttamente il nascituro.
A volte sembra di sì, ma non fino in fondo.
Amniocentesi: il test comporta un rischio per la gravidanza, ci racconta alcune cose e altre no, le donne più giovani preferiscono andare avanti ad occhi chiusi perché è spesso meno rischioso. Ma per chi? Non per il bambino.
Forse sono una pessima persona, forse è perché mi manca qualche sano valore cattolico. Nel mio pragmatismo, credo che preferirei morire senza aver vissuto perché mia madre ha provato ad assicurarsi che avessi tutte le possibilità di fronte a me, piuttosto che rischiare di vivere una vita alternativa. Non voglio dire monca, non voglio dire triste, sarebbe falso, ma sarebbe anche cieco e ingenuo sostenere che è la stessa cosa, nascere tutti interi oppure no.
Non sto parlando da padre, badate, ma da figlio. Da padre non penso che vorrei mettere a rischio la vita di un figlio che non ho ancora visto nascere. Non importa molto chi sarà. E anche solo immaginare che possa nascere invalido sarebbe, per la nostra incurabile superstizione, comunque troppo sforzo. Correggetemi se sbaglio, vi prego, voglio sbagliarmi.
“Andrà tutto bene” lo diciamo per noi, non per chi verrà.
Non andrà tutto bene un cazzo.
Mary Shelley
La scelta moralmente sbagliata è, direi io, quella che porta orribili conseguenze, invertendo cause e conseguenze – almeno nella percezione.(Questa cosa porta il fantasiosissimo nome di consequenzialismo, e in generale, badate, non andrebbe confuso con l’utilitarismo, né con quella noia priva di poesia dell’altruismo efficace dei razionalisti.)
Ignoriamo per un attimo la difficoltà di stabilire l’orribili in conseguenze. Ignoriamo anche la difficoltà di stabilire le conseguenze.
Anni di vita in occidente, la cultura della colpa, il cristianesimo: se fai il male, ti verrà del male, segue naturalmente. Immaginiamo che non sia così – non è difficile, un piccolissimo sforzo.
L’universo non ci giudica.
Dio forse esiste, ma non è su questa terra.
Il dottor Victor Frankenstein compie un atto scellerato, lo sappiamo tutti. Ma perché è scellerato? Ecco, una morale del racconto è che l’uomo deve cedere alla natura, e che se non sta al suo posto ne verrà del male. È la stessa morale di Jurassic Park, è la morale della Bibbia, è la nostra morale. Qual è il dovere dell’uomo? Lasciare che il sole splenda perché il sole lo lascerà morire. Non sfidiamo la natura. Gli uragani, gli tsunami, il Coronavirus.
Non è vero, vi dico. Se non avessimo sfidato la natura, saremmo tutti morti da un pezzo. Se natura è equilibrio e immobilità, la vita è contro natura. La vita è contro gli equilibri statistici, riduce l’entropia (kind of, non mi addentro nella fisica, non è rilevante).
E allora siamo giustificati nella nostra opera di disfacimento delle leggi e delle cose? No, per carità, restiamo stupidi e poco lungimiranti comunque.
Il dottor Frankenstein non aveva ragione lo stesso, ma perché? Non è una domanda facile.
Parte della risposta è che ha messo al mondo una creatura di cui non poteva, o non voleva, prendersi cura. L’altra parte, a mio modo di vedere, è che ha messo al mondo una Creatura incompiuta alla fin fine, non intera del tutto, e ciò è causa di sofferenza. L’atto fu turpe e funesto perché incosciente e sadico, ignaro delle conseguenze, piacevoli o spiacevoli che sarebbero state. Il dottor Frankenstein vuole infondere la vita, questo è il suo gioco, non si è mai preparato neppure per un momento a cosa si parerà di fronte a sé, non si è mai chiesto se sarà pronto ad affrontare la sua opera, dà per scontato di sì.
E del resto a chi importa? Alla Creatura? A questo figlio che tanto non è ancora nato?
La sua pessima esperienza genitoriale e non il farsi un genitore porta alla rovina di Victor Frankenstein. È questa la sfida prometeica agli dei, non la creazione della vita per sé: Dio non ha da chiedersi delle conseguenze perché ogni cosa che accade, accade nel suo disegno, la sua creazione è un gesto libero e puro, invece noi siamo solo uomini, e il nostro disegno vacilla, costantemente.
E poi c’era anche di mezzo un’allegoria cristiana, penso, sull’umanità abbandonata da Dio che fonda la morale e altri temi gotici, ma non era utile a mandare avanti il mio ragionamento.
Wanda Maximoff
Il primo intreccio romantico nella vicenda di Visione è quello con Scarlet Witch. Con lei il sintezoide convolò a nozze nel ’75, prima che Wanda fosse dichiarata figlia di Magneto una decina d’anni dopo eccetera eccetera.
I due ebbero anche due figli, di natura incerta, poiché a quanto pare Visione – e da qui parte poi anche il suo dramma nella storia di cui parliamo – non è in grado di concepire.
Che cosa mi prende, Annaluce?
La spiegazione che fu data e che ricordo (dovrebbe ancora essere canonica) è che Wanda si spinse fino a plasmare due anime nuove dai frammenti dell’anima di un diavolo, per fabbricarsi in sostanza due figli con la magia.
La storia era cominciata nella serie The Vision and the Scarlet Witch, degli anni ’80, proseguì con Avengers West Coast, terminando nel lutto, in magie manipola-realtà e altre tipiche situazioni da fumetto con Avengers Disassembled e poi con il più famoso House of M, se voleste approfondire. Se il tutto vi suonasse familiare anche in altro modo, sì, è pure la premessa per sommi capi della nuova serie TV WandaVision, che è pure la ragione per cui mi sto finalmente decidendo a portare a termine questa recensione.
Ma recensione di cosa, insomma? Della miniserie Visione di Tom King, del 2015, con Gabriel Hernandez Walta (e un’ospitata di Michael Walsh) alle matite e Jordie Bellaire ai colori.
Fate attenzione, perché da qui in avanti alcuni spoiler, che non inficiano la qualità della lettura del fumetto ma potrebbero comunque infastidirvi, saranno fatti. Non posso, e non voglio, ricontrollare ogni passaggio per decidere se ciò che vi racconterò sarà abbastanza avanti o indietro nella serie da essere giudicato spoiler o meno, mi serve a proseguire il mio discorso. Nella serie vengono citati gli eventi dell’85, sostituendo i furti di anime con dei più prosaici “furti” di personalità: sulla mente di Wanda, Visione plasma la sua moglie di plastica e metalli esotici; da un mix della donna che amava e di sé stesso sintetizza poi la mente dei suoi figli, scimmiottando il processo che di due metà di entità diverse fa una sola cellula di una nuova.
E questo gesto contro-natura, nella più acclamata tradizione occidentale, avrà conseguenze funeste. Ma, come per Victor Frankenstein, anche Visione ha compiuto errori di valutazione ben più prosaici a osservarlo da vicino, e questi apporranno il tragiche alle conseguenze delle sue candide intenzioni – e della sua meno candida esecuzione.
Wanda Maximoff non è però soltanto un passaggio contingente di questo mio discorso, è una ragione importante per ciò che accade nella storia che vi sto in parte raccontando, soprattutto sarà al centro della seconda metà, ma la sua presenza aleggia fin dal principio. King ci descrive inizialmente Wanda non tanto come un personaggio a sé, quanto come una esperienza ingombrante nei ricordi di un uomo che non riesce a fare i conti con tutti gli aspetti della propria natura. E quando tornerà ad essere un personaggio reale di fronte al lettore, spiegandoci le sue motivazioni e contribuendo i suoi pensieri (ho fatto la battuta) i nodi della vicenda saranno sciolti.
Visione, di Tom King
In sostanza, Visione ha dumpato il cervello della sua ex-moglie in una copia al femminile del suo corpo, si è sintetizzato due figli artificiali, e se ne è andato a fare il padre di famiglia in periferia. Quel pazzo di Tom King ha messo insieme un ibrido malsano tra Desperate Housewives, un teen drama e Alan Moore, e volete sapere una cosa? Ha funzionato.
Un po’ peggio di un uomo
King adotta per la maggior parte una struttura rigida delle vignette, non ci sono molte illustrazioni a pagina intera, sequenze di vignette di forme bizzarre sovrapposte le une alle altre e disordinate. Questo, oltre a ricordarci il già citato Moore con le sue pagine a 9, aiuta a rendere placido il racconto.
Quando entriamo nella storia, una serie abbastanza fitta di didascalie ci accompagna nella lettura di scene dialogate che sembrano venire dalla vita di tutti i giorni, intrise di quotidianità, di opinioni, di attualità. A volte questi dialoghi diverranno più intimi, facendosi carico di verità universali per le quali l’autore ricorrerà anche a molte citazioni esplicite dalla natura più disparata, da Shakespeare alle filastrocche per bambini; le didascalie, intanto, assumono il ruolo di un narratore distratto, spesso vagando altrove, nel passato o nel presente della storia.
Questo è un ruolo cruciale per tutta la durata del racconto, perché giustappone un evento a un altro dando a entrambi un significato ulteriore, ci aiuta a collegare parti lontane della trama e ci anticipa cose che devono ancora accadere, per mettere tutto nella giusta prospettiva: nelle prime pagine, quando i vicini dei Visione ci sono appena stati presentati, veniamo subito a sapere che moriranno e come moriranno.
È come se King ci tenesse a precisare fin da subito che non stiamo leggendo una storia di supereroi. Niente cattivi nascosti, colpi di scena inattesi, azione mozzafiato, niente conti alla rovescia, salvataggi all’ultimo minuto, o applausi, c’è solo il dramma di un’umanità fatta a pezzi, e questi pezzi l’autore si preoccupa di raccogliere delicatamente e rimettere insieme. Di conseguenza anche noi lettori dobbiamo essere messi al corrente di questi problemi il prima possibile, in modo da poterlo aiutare nel suo compito; evitando però, per la fretta, di disfare più di quanto sia necessario.
I Visione ci vengono presentati come una famiglia qualunque, in una periferia qualunque, a condurre una vita ordinaria. Ogni dettaglio di questa ordinarietà è sottolineato più volte perché rimanga impresso o contrasti con alcuni piccoli dettagli fuori posto, producendo uno straniamento dapprima poco intenso. Sappiamo benissimo che ci stiamo dirigendo verso una rottura perché il narratore se lo è lasciato candidamente sfuggire, e sappiamo se siamo attenti alla premessa e ai vari indizi che il peccato originale verrà infine pagato. Non sappiamo, però, come accadrà, e non possiamo far altro che chiedercelo, cercando di comprendere le ragioni.
E il vaso, quel dannato vaso volante, starà lì per tutto il tempo, fino alla fine, a ricordarci che è tutto sbagliato, che un peccato è stato commesso. E non andrà via finché non sarà stato espiato.
It was so hush hush, I’m amazed
Gli elementi della vita di provincia si mescolano male alle avventure tipiche degli eroi in costume, ed è qui che il ponte offerto da certe serie TV incentrate sul mistero e sulla provincia americana (un sottogenere curiosamente specifico, confesso) viene sfruttato per conciliare questi due aspetti distanti, introducendo inevitabilmente delle variazioni – e un distacco – inaspettati anche nel modo in cui le tipiche avventure da supereroe ci vengono presentate. Questa narrazione a tratti grottesca riesce a rendere credibili le influenze di generi così distanti e tutto il contesto che viene a crearvisi intorno: dai drammi liceali alle relazioni coi vicini, dal lutto al romanticismo, ciascuno vissuto in prima persona dagli ultimi individui da cui ce lo si aspetterebbe.
Senza questo meccanismo, e senza lo straniamento generato, come accennato prima, da tutti i dettagli fuori posto (anche elementi grafici futili, come Visione che cammina attraverso il divano in salotto), tutto l’impianto probabilmente cadrebbe.
Tom King, tuttavia, riesce a camminare su questa corda sottile in equilibrio per tutto il tempo, riuscendo anche a prepararsi, quando serve, un terreno più solido per certe scene più deboli, ricadendo a tempo negli stereotipi di genere solo quel tanto che basta per mettere a posto ancora un altro tassello e tornando repentinamente sulla corda non appena finito, appena prima che la spinta della storia si esaurisca e il tutto scada in ancora un’altra sciocca storia di supereroi con delle premesse sprecate.
Un po’ meglio di una bestia
Se la prima metà del racconto serve a illustrare gli esiti e mettere in chiaro il contesto, la seconda metà si mette a scavare dove la terra è stata smossa (metaforicamente?) per chiarire i fatti, ma soprattutto, come già ho detto, le ragioni. In questo ancora una volta la miniserie riesce magnificamente, rivoltando le menti pagina dopo pagina più familiari dei protagonisti, e lo fa sia direttamente, con dialoghi tanto semplici quanto efficaci, senza orpelli né retorica fuori posto, sia indirettamente mostrandoci le reazioni agli eventi ormai in moto inarrestabile.
Questa sarà la scusa per parlarci di elaborazione delle perdite, ma senza funerali con le bandiere ed elogi da mano sul petto, di adolescenza, ma senza perbenismi e luoghi comuni (pochi, ok?). E per meditare sulla responsabilità e sulla colpa.
Solo quando Visione sarà finalmente pronto ad assumersi le responsabilità dei propri gesti e della sua nuova genitorialità (che termine orribile, cristo) i nodi potranno essere sciolti.
E solo quando il sacrificio avrà espiato il peccato e placato i cieli, questa storia ora chiarita potrà essere lasciata andare e i suoi protagonisti proseguire nella vita, felici stavolta nonostante tutto (e tanti saluti al dannato vaso).
Un sacrificio, badate, che è conseguenza del tutto naturale dei fatti, è questo a renderlo giusto in fondo. Si tratta, come per Frankenstein, di una spiritualità a posteriori, raccolta nel mondo e non discesa dall’alto.
Prima di salutarci
Lascio a voi ricucire i margini di questo discorso prolisso, le osservazioni che mi interessava fare in fondo le ho fatte. Quello che mi preme invece ancora dirvi riguarda Mondo Sequenziale.
Nelle mie intenzioni questo articolo sancisce il ritorno, stavolta definitivo, del blog. Gli sforzi eterogenei dei due anni precedenti ce li lasceremo spero alle spalle per prendere una strada più personale: voglio dirvi quello che mi va quando mi va di farlo, e questo è lo spazio che mi sono preso per lo scopo.
Così è (se vi pare).
Aspirante studente e pigro dalla nascita, appassionato di storie in ogni forma e di sentenze sensazionalistiche poco argomentate. Per altri dettagli vi rimando all’autobiografia che non scriverò mai dal titolo provvisorio di ‘Indecisi’ – ‘Mainstream’ era già preso.