Oggi parliamo di The Magic Order, quella miniserie che si è conclusa – in realtà ha già un seguito annunciato, quindi non è una miniserie ma una serie di miniserie, tipo una serie televisiva e non credo sia un caso – a febbraio 2019, appena pubblicata in volume in Italia e che andava letta perché la scrive Millar, la produce Netflix, la disegna Coipel.
La serie ha fatto il solito rumore che fa questo tipo di prodotti e non credo ne farà troppo altro almeno fino all’arrivo dell’adattamento sulla regina – ancora per poco? – delle piattaforme di streaming, già tra l’altro annunciato.
Sì, perché questo fumetto in realtà è uno script, o meglio un pitch, per la serie che verrà, almeno agli occhi della produzione. E sebbene in sé come graphic novel qualche cosa da dire ce l’abbia, non si discosta in realtà molto dall’obiettivo bisbigliato manco tanto a mezza bocca di riempire i palinsesti, compito di certo non necessario nel panorama comic – dove di serie per riempire i palinsesti ne abbiamo già più di quelle che servono -, ma che sembra non essere mai sufficientemente coperto in ambito di serie TV, dove Netflix, AMC, Syfy e non so chi altri rincorrono avidamente Grant Morrison, Garth Ennis, Alan Moore… e Mark Millar.
Iniziamo dalle cose semplici: i disegni.
Ho sentito qualcuno storcere il naso in merito alle tavole, definendole vuote, Coipel sottotono, non ci sono i colori, non c’è la psichedelìa, pure lo studio dei personaggi pare abbozzato e hanno tutti la stessa faccia (zii, metà dei protagonisti sono fratelli, sorelle, cugini; chiarito questo…), la magia è figa ma non abbastanza… Ste robe così.
Allora, proviamo a fare ordine. A me Coipel è piaciuto (tantissimo), soprattutto come caratterista. Certo se vi aspettavate Chris Bachalo su Doc Strange (tanto per non scavare troppo) o chissà che robe colorate e oniriche rimarrete delusi, ma non è quella l’intenzione tipo nemmeno per sbaglio. Qua non c’è niente di psichedelico perché nessuno ce lo ha voluto mettere.
La magia ha i suoi momenti wow ma in un modo abbastanza sobrio e tranquillo, fa tanto Harry Potter. Anzi penso che faccia Harry Potter perché Millar stesso ha voluto che The Magic Order fosse “I Soprano [che] incontrano Harry Potter”. Dato che I Soprano non l’ho visto non so quanto sia vera l’altra metà della frase.
Quindi, in conclusione, Coipel è stato fedele allo spirito della narrazione restituendoci punti di fantastico in un’ambientazione tutto sommato urbana e realistica, e apprezzo anche la scelta di concentrarsi sui volti e in generale sui personaggi lasciando spesso gli sfondi spogli quando non fossero il centro della tavola in modo da far procedere tutto come un drama, tutto focalizzato sulle interazioni tra i personaggi, tanto dialogo e poca azione (ma tutto sommato buona) e spesso fondali scuri monocromatici e altre scelte da scena su palcoscenico. Tutto in linea con l’ispirazione principale di Mark Millar per quest’opera: Re Lear.
Però sì, Coipel ha avuto mesi migliori e nonostante regga benissimo il lavoro non brilla praticamente mai, di sto passo il caro Olivier è il prossimo Jim Lee, e parlo di tutta la parabola in ordine non solo dei suoi momenti benedetti.
Chapeau a Dave Stewart che ha apparato egregiamente i fossi come si dice dalle mie parti (coperto le lacune – N.d.A.).
Le citazioni a Shakespeare sono esplicite, a partire dai nomi dei personaggi fino allo svolgimento essenziale della vicenda, il che ha di male solo di svenderci parte della trama e dei colpi di scena – perché lo sapete, sì, come va a finire Re Lear? Vorrei ben dire.
Il problema, se mai, è che in quello che si pone quasi come un adattamento moderno le tematiche della tragedia sono toccate piuttosto superficialmente, lo scioglimento dell’intreccio non è manco per sbaglio così catastrofico e intricato e tutto il discorso sulla pazzia va a farsi benedire insieme al resto dei particolari che l’autore ha ben deciso (non sono ironico, non è che poteva fare il remake di Re Lear con le bacchette magiche) di non portare in scena.
Quindi è un problema per modo di dire, perché The Magic Order sta in piedi da solo… o no?
La trama è solida. Il mondo intorno è abbozzato ma quello che vedi ti piace e quello che non vedi è perché non ti serve nemmeno lì per lì per riempire scene che sono già belle nella loro essenzialità. Protagonisti non estremamente approfonditi ma validi, antagonisti ben pensati. E sotto?
Chiariamoci, io posso apprezzare una storia pure se sotto non ci sta niente ed è solo una bella storia con dei bei personaggi, ma qua si sente proprio la mancanza di un tema scottante per lasciarti bollire lentamente nel tuo brodo di dubbi esistenziali; oppure di qualche numero in più per gonfiare la trama con il dovuto sottobosco di storielle secondarie e tutto il resto.
Cioè, io ho capito che dopo ci fanno la serie TV e ci mettono questo e pure l’altro che non serve, ma mi lasciate così? Con due citazioni a Shakespeare, un paio di funerali, un giallo che non è un giallo perché indagini non è che se ne vedano e mezzo sai già come va a finire, zero approfondimento sull’ambientazione, solo coi dialoghi e il dramma parentale?
Per carità gli scorci sulla storia e personalità dei protagonisti mi sono piaciuti, anche se alcuni creano più dubbi che spessore – no, non sto parlando né della scuola né del compleanno; e anche se almeno un paio di scene mettono il lettore di fronte a una preoccupantissima voragine che potrebbe inghiottire qualunque cosa di carino c’era in questa magia di fascia medio-alta. Tanto per dirne una (sto sempre parlando dei flashback sulle backstories, prima che mi linciate) i viaggi nel tempo non sono una cosa agile che la butti lì e sbò, sono perigliosi.
E da ultimo, signor Millar, lei non sta neppure dando significativi contributi a questa storia, è un fottutissimo collage. Nudità esplicita e violenza, vuole cavarsela così?
Tra l’altro non ha nemmeno provato a ricercare o inventarsi qualche orpello mitologico/folkloristico per amalgamare il tutto. Non ci sono grossi dettagli su come la magia funzioni o da dove provengano gli incantesimi – tutto sommato tutto apposto, purché non tiri fuori dal cappello cose per risolvere la trama… ah, no aspetta, lo ha fatto? – tranne per pochi dettagli, un paio talmente abusati che li tiri fuori dal cilindro quando non hai preparato tutta la sessione di Dungeons & Dragons e non sai come andare avanti un’altra ora
Mark Millar sei un pigro.
Questo è tipo l’unico problema che affligge un prodotto estremamente solido a mio parere e sicuramente estremamente piacevole da leggere.
‘Sto qua ci ha a malapena provato per tirare fuori sta roba. Mark Millar può concepire una storia così la mattina sul cesso in dieci minuti e senza nulla togliere al tempo effettivamente impiegato per metterla poi nero su bianco, elaborare le tavole, mettere in piedi i dialoghi e tutto, non ha ripensato a un dettaglio manco una volta da quella mattina sul cesso alla pubblicazione finale. Non ha aggiunto niente che non fosse già in giro e passivamente disponibile nel suo repertorio e, purtroppo, anche in quello dei suoi lettori.
No, dai, magari il design di un paio di cose mi è piaciuto anche parecchio, ma giusto un paio.
Su cosa voglia dire produrre un’opera originale si potrebbero sprecare fiato e citazioni per ore, e anche scopiazzare, reimpastare et similia fa ampiamente parte del lavoro. E queste cose le so io, le sapeva Goethe e le sa pure Mark Millar – come a dire le sa il pescivendolo, le sa lo scrittore, le sa il critico, a voi stabilire chi interpreta chi. Le sa molto meglio di come le ha applicate, è questo il misfatto.
Mark Millar sa bene cosa mancava a rendere The Magic Order memorabile. Per esempio, lo sa cosa significano e quanto pesano quei piccoli dettagli scemi, che uno può aver letto su un paragrafo trascurato del Malleum Maleficarum o in un passo dimenticato della mitologia afghana, sulla riuscita di una storia che parla di magia. E lo sa che ‘sta roba ai lettori piace. Ma è difficile da fare: è più facile rifare Harry Potter per adulti o I Soprano con le bacchette magiche; è più facile rubare la trama a Shakespeare; è più facile rifare cose che avete tutti già visto tenendo l’attenzione del lettore su quel dettaglio che gliele farà bere. È più facile un gioco di prestigio della magia vera.
Che poi, del resto, ce lo dice pure Leonard Moonstone che The Magic Order è un gioco di prestigio, tra l’altro con un’uscita che ricorda fin troppo da vicino il Michael Caine di The Prestige (il film di Nolan, per capirsi), confermando un’altra volta i debiti contratti con opere fin troppo recenti, incluse le rocambolesche sparizioni alla Now You See Me da cui il titolo. Dov’è che dovrei emozionarmi?
Le conto sulla punta delle dita le trovate.
Forse il funerale, la cerimonia della bacchetta. Lì, “Oh, questo è suggestivo” l’ho pensato. Quello è worldbuilding fatto bene. Forse pure la faccenda del Veneziano – ma quello mi sa che è più merito di Coipel che di Millar.
Poi finisce un po’ là, e ne siamo dispiaciuti.
Vi lascio con la convinzione che la serie verrà fuori meglio e con la certezza che mi ha portato via poche ore in modo assai piacevole, quindi lo consiglio comunque – almeno agli appassionati del genere; sperando, inoltre, che in questo seguito già annunciato il team si scaldi e ci faccia vedere di cosa è capace veramente.
P.S. Ho risfogliato un po’ il volume per decidere da quali tavole prendere le immagini a corredo dell’articolo e di Coipel mi reinnamoro ogni volta, niente da fare.
Aspirante studente e pigro dalla nascita, appassionato di storie in ogni forma e di sentenze sensazionalistiche poco argomentate. Per altri dettagli vi rimando all’autobiografia che non scriverò mai dal titolo provvisorio di ‘Indecisi’ – ‘Mainstream’ era già preso.