Il titolo era già sufficientemente Tumblr da non richiedere che io ci rimettessi mano.
Di cosa parlo? Di una delle ultime produzioni Netflix, ne avrete sentito parlare sicuramente, perché quando Netflix produce qualcosa di minimamente interessante ce lo fa pesare come se avesse appena salvato il mondo da una pandemia, e poi all’improvviso tutti (compreso me) ne stanno parlando.
Love, Death and Robots però se lo è meritato, perché è una cosa bella.
L’industria dell’intrattenimento è reduce quest’anno (2019, N.d.A.) da Into the Spiderverse, l’ultimo lungometraggio animato su Spider-Man, che ha fatto parlare tantissimo di sé nonostante alla fine sia solo un bel cartone per ragazzini infarcito di citazioni per distrarre anche il pubblico più maturo (e geek) che sicuramente sarebbe finito in sala a guardarlo. Il motivo è che tutti gli aspetti tecnici, dal design dei personaggi ai dettagli più insignificanti in fase di animazione, sono spettacolari (avevamo intenzione di parlarne del dettaglio ma poi cose, il momento è passato e non se n’è più fatto niente).
Tutti nell’industria erano contentissimi, gli appassionati di fumetti erano contentissimi, io ero contentissimo, e il resto del mondo non capiva perché ci stessimo tutti masturbando mentalmente su un cartone per ragazzini.
Ora, finalmente, grazie a Tim Miller, David Fincher (che sono gli ideatori) e tutta la gente impegnata nell’effettiva realizzazione di Love, Death and Robots (tra cui Alberto Mielgo, che guarda caso era pure dietro alla realizzazione di Into the Spiderverse agli albori della produzione, prima di essere malamente cacciato dalla Sony) possiamo indirizzare le nostre attenzioni verso un prodotto per adulti e riabbottonarci i pantaloni. Forse.
In effetti in Love, Death and Robots c’è tutto quello che il titolo ci promette, con il piccolo twist che Love sembra perlopiù inteso come un eufemismo per pornografia e con una leggera predilezione per Death su Robots. Ma d’altronde la prima e principale fonte di ispirazione per la serie è stata la rivista Heavy Metal: insomma ce lo potevamo aspettare.
La caratteristica più importante, comunque, che questa nuova serie eredita da Heavy Metal è la struttura di antologico, e qui veniamo quindi ai contenuti.
La serie è composta da 18 episodi, di cui 2 originali e 16 adattamenti da altri media, dalla durata variabile tra 5 e 20 minuti circa. Questa struttura è una delle cose che ho apprezzato maggiormente, perché ogni storia è autoconclusiva, facilmente fruibile in un momento qualunque della giornata, e tutte si prendono solo il tempo che serve, né più né meno, senza inutili diluizioni. Non che il ritmo sia sempre necessariamente frenetico, come in The Witness, e anzi alcune storie sono lente e descrittive: sto pensando a Fish Night.
Anche gli autori e le tecniche variano.
Ci sono esempi magistrali di motion capture, alcuni più frizzanti altri solidi ma banali, come Shape-Shifters o Lucky 13 che a tratti sembrano cut scene di un videogame tripla A, altri episodi sono animati interamente, sia in 2D che in 3D, ce n’è persino uno in live action – con tanta CGI, non vi preoccupate.
Ma qualunque sia la tecnica scelta, si parla di lavori di alta qualità con uno stile ben definito e animazioni eccezionali. Penso che il pilastro dell’opera, nel complesso, sia proprio questo: il virtuosismo tecnico.
Proprio The Witness, con quell’uso strano dei colori, i contorni che vibrano, quelle luci, è un esempio di quanta cura ci sia per questo aspetto (anche il primo episodio, Sonnie’s Edge, non scherza ed è pure cyberpunk AF, fanculo!).
Non che manchino gli episodi con colpi di scena inattesi, o divertenti, o capaci di offrire riflessioni mature e per nulla banali, ma anche quando non sia il caso di un corto specifico, potete stare sicuri che resterà comunque godibile proprio per le illustrazioni e l’animazione.
In generale, penso di aver preferito gli episodi più violenti e viscerali, perché credo che coincidano con quelli in cui gli autori hanno voluto osare di più, con un paio di episodi di estrema violenza fisica e di abusi. Apprezzo inoltre che nonostante questi momenti la serie resti comunque fruibile al grande pubblico (adulto, sia chiaro), perché non esagera comunque mai, complice la scelta dell’animazione che rispetto al cinema riesce ad edulcorare anche le scene più esplicite.
Un’eccezione che mi viene in mente è l’episodio Zima Blue, il quale oltre ad essere tra gli episodi meno crudi è anche uno dei più interessanti, facendoci riflettere in modo abbastanza atipico sul senso dell’arte e della vita.
Altra menzione speciale per When The Yogurt Took Over, credo l’episodio più a caso dell’intera serie. Grazie di esistere.
Il mio voto a Love, Death and Robots nel complesso? Diesci.
Non tutti gli episodi sono stupendi, ovviamente, ma tra alti e bassi questa antologia risulta comunque secondo me un prodotto molto ben confezionato che vale senza dubbio la pena vedere.
E poi voglio dire, la durata totale è di quanto, 4 ore? Non che sia necessariamente un valore aggiunto (per me lo è, sono un tipo da film più che da serie), ma il rapporto intrattenimento su tempo investito è decisamente alto.
Aspirante studente e pigro dalla nascita, appassionato di storie in ogni forma e di sentenze sensazionalistiche poco argomentate. Per altri dettagli vi rimando all’autobiografia che non scriverò mai dal titolo provvisorio di ‘Indecisi’ – ‘Mainstream’ era già preso.